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La dura marcia dei Democratici verso il midterm

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A un mese e mezzo dalle elezioni di medio termine, i sondaggi vedono i Democratici quasi certamente sconfitti alla Camera dei Rappresentanti e quasi certamente vittoriosi al Senato (nel senso che, pur perdendo seggi, dovrebbero mantenere la maggioranza per uno o due senatori). Per il Center for Politics di Larry Sabato – uno degli analisti più accredidati, capace di previsioni accuratissime tanto per le presidenziali che per il Congresso – se si votasse oggi i Repubblicani guadagnerebbero 47 seggi alla Camera dei Rappresentanti (gliene servono 39 per conquistare la maggioranza) e 7 al Senato (con 9 si porterebbero 50 e 50 con i Democratici).

La campagna elettorale può ancora subire degli scossoni – ottobre è il mese più importante, e con molti prevedibili testa a testa nei collegi che verranno decisi solo nell’ultima settimana – ma il trend è indiscutibile e i termini sono chiari: se i Democratici riuscissero a ribaltare una decina delle gare alla Camera dove si presume possano perdere (con una ventina di seggi sui quali si punteranno la maggior parte dei soldi e della fatica), e al contempo mantenere il controllo del Senato, allora si parlerà di una vittoria di Obama. Di media, il partito del presidente in carica perde 28 seggi, in un contesto elettorale dove si raggiunge difficilmente il 40% della partecipazione dell’elettorato attivo, contro il 60% delle presidenziali degli anni 2000. Nella battaglia per i governatorati – si vota in 37 Stati – ad oggi Larry Sabato assegna la conquista di otto capitali da parte dei Repubblicani.

Da notare che questo è un anno speciale, dove conterà molto chi siede a capo di ogni singolo Stato, poiché è l’anno del “redistricting”: ogni dieci, in base ai nuovi dati raccolti e pubblicati dal Census Bureau, si procede a ridisegnare i confini dei collegi elettorali federali, in modo tale che essi rappresentino la popolazione dello Stato (che cambia anche in misura significativa) in modo proporzionale. Il processo è gestito quasi ovunque da mani politiche, e non tecniche: è da sempre una partita decisiva grazie alla quale si creano vantaggi strutturali per il partito che governa lo Stato. E sono vantaggi che durano, appunto, circa un decennio.

L’altra ipotesi è che i Democratici perdano invece in modo eclatante – un’eventualità che in questi giorni è paventata soprattutto dalla grande stampa, quasi nella parte dell’amante delusa del Presidente Obama assai più di altri. In tal caso,  i paragoni richiamerebbero ovviamente al 1994 (quando i Repubblicani riconquistarono il Congresso dopo i primi due anni di Presidenza Clinton) e a un’immagine degli Usa (di nuovo) come “The Right Nation”, il paese “giusto perché di destra” che rigetta i tentativi democratici di trasformare le basi culturali e politiche della Nazione. Oggi come allora, la battaglia era nata attorno alla Riforma sanitaria, che Obama, al contrario di Clinton, è riuscito a far approvare.

L’esito, che i democratici ce la facciano o meno a mantenere in piedi una maggioranza, sarà quello di un Congresso ancor più “polarizzato” dal punto di vista ideologico, poiché i Democratici in bilico sono per la maggior parte Congressmen moderati, al primo o al secondo mandato, che hanno conquistato un seggio in collegi tradizionalmente conservatori, sfruttando il crollo dei consensi di Bush e del partito repubblicano nel 2006 e la popolarità di Obama nel 2008. Alcuni sono già spacciati, e sembrano fare campagna elettorale più contro Obama che contro i Repubblicani, nel tentativo disperato di corteggiare l’elettorato conservatore. Anche grazie al Tea Party – ma soprattutto grazie ai trent’anni di trasformazione del partito, che già da tempo ha provveduto a esiliare i moderati – il partito Repubblicano mostrerà una classe politica sempre più intransigente, mentre i Democratici presenteranno una pattuglia congressuale più omogeneamente “liberal” di quella degli ultimi due mandati.

Le ripercussioni della battaglia interna al GOP si dovranno analizzare dopo il voto di novembre. In ogni caso, i Democratici costruiranno un caso nazionale attorno alla vittoria della candidata del Tea Party nelle primarie repubblicane per il seggio senatoriale del Delaware, l’inquietante Christine O’Donnell, che tra l’altro ha mentito sul suo curriculum studiorum e ha pubblicamente affermato che la masturbazione è un peccato più grave dell’adulterio. L’obiettivo democratico sarà senza dubbio di mostrare la faccia pericolosamente estremista dei Repubblicani, e i sondaggi già evidenziano che in alcuni collegi questo refrain sta effettivamente funzionando. Lo stratega elettorale di George W. Bush, Karl Rove, ha dato per perso quel seggio del Delaware: con un altro candidato sarebbe stato contendibile. È quindi davvero azzeccata la battuta dell’ex Presidente Clinton: “questi candidati repubblicani hanno trasformato George W. Bush in un liberal”.

E arriviamo a uno dei grandi temi di queste elezioni: perché i Repubblicani vogliono tornare a votare e i Democratici, invece, no. Rispetto al 2008, le parti sembrano perfettamente invertite: sono i Democratici a patire il “gap dell’entusiasmo”. Era dal 1970 che le primarie repubblicane non erano così partecipate (circa 16 milioni di persone, 3 in più di quelle che hanno preso parte alle consultazioni dei Democratici), un indicatore abbastanza attendibile di un buon risultato elettorale. Solitamente le primarie repubblicane sono meno contendibili di quelle democratiche, ma quest’anno non è andata così: sappiamo che va ringraziato il Tea Party, Sarah Palin e l’anchorman Glenn Beck che da Fox News ha dato spazio al movimento. Sebbene i dati reali ridimensionino – e di parecchio – l’immagine giornalistica di queste primarie come Caporetto degli incumbents (secondo la ben nota legge che un uomo che morde un cane fa più notizia di un cane che morde un uomo), la mobilitazione anti-Obama ha sortito gli stessi effetti della grande mobilitazione contro Bush del 2008. Ma dove sono finiti quegli elettori che due anni fa parteciparono al sogno del “change” (soprattutto giovani, ispanici, donne)? L’impressione, in parte suffragata dai sondaggi, mostra che molti di loro in questo 2010 torneranno a fare quello che hanno sempre fatto nelle elezioni di medio termine, cioè non votare: in parte è un dato strutturale che non si inverte in un paio d’anni, in parte ha a che fare con la delusione verso l’amministrazione Obama.

Gli uomini di Obama e del partito Democratico sapevano che questo sarebbe accaduto – il gradimento verso il presidente è sceso di molto, ma è in linea con quello dei presidenti del passato – e per questo avevano pensato a forme di stabilizzazione della relazione che lega elettori e presidente, attraverso il movimento “Organizing For America” (OFA). È uno strumento a metà tra la Fan Politics e il progetto ambizioso di uscire dall’impasse provocata da partiti che, da un secolo, posseggono un carattere quasi esclusivamente elettorale. La rivista Time ha pubblicato recentemente un articolo dal titolo “Dov’è finito l’esercito di Obama?” sostenendo il fallimento del progetto, in grave difficoltà perché nemmeno i Democratici più vicini al presidente ci avrebbero creduto sul serio. Adesso OFA si sta risvegliando, ma le iniziative per le elezioni di Midterm potrebbero servire forse a scaldare i motori per il 2012, non certo a cambiare la rotta per questo novembre.

Ronald Brownstein – uno dei primi commentatori a mettere in evidenza la forza della nuova coalizione sociale di Obama – offre una chiave interpretativa molto semplice e accattivante: dopo i primi mesi di luna di miele con il paese, le fasce di elettorato meno sensibili alla narrazione obamiana – “blue collar” bianchi, soprattutto uomini, e l’ elettorato maschile e bianco con un reddito molto sopra la media – si sono lasciate affascinare dall’opposizione politica e ideologica che ha mosso guerra a questa amministrazione; e torneranno a votare. Invece gli altri, cioè quei segmenti di società ascendenti come sono i giovani e gli ispanici, hanno subito la delusione di aver sognato un cambiamento e avere invece vissuto la crisi economica. Secondo Brownstein, se entro il 2012 si potrà “vendere” un po’ di rilancio economico e dell’occupazione si avranno le basi per riportare questa parte di elettorato alle urne, coinvolgendo nuovamente un pezzo d’America in un grande progetto collettivo. Nel frattempo, ai Democratici sembra restare solo l’opzione di far paura ai propri elettori mostrando l’immagine di un Congresso popolato da centinaia di Sarah Palin.