Alla notizia della morte di Kim Jong-il, lo scorso dicembre il presidente della Corea del Sud, Lee Myung-bak, ha convocato d’urgenza il Consiglio di sicurezza nazionale e ha ordinato alle forze armate lo stato di massima allerta. Queste misure hanno suscitato, prevedibilmente, le immediate reazioni della Corea del Nord, che ha considerato oltraggiosa la scelta di Seul durante il periodo di lutto e le cerimonie funebri in onore del leader nordcoreano. La Corea del Nord si trova ad affrontare un momento delicato con il passaggio di poteri nelle mani del giovane Kim Jong-un e, nonostante voglia trasmettere un’immagine di continuità e stabilità, sembra davvero inevitabile l’adozione di alcune riforme economiche per un paese ridotto alla povertà e all’isolamento internazionale. Una cosa sembra però certa: la priorità non è l’unificazione con il Sud. In diverse occasioni i leader nordcoreani hanno ribadito una chiusura totale nei confronti dell’attuale governo e la determinazione ad aspettare il risultato delle elezioni, previste per il prossimo dicembre, con la speranza che sia eletto un presidente più disponibile al dialogo rispetto a Lee Myung-bak, ritenuto una figura intenzionata ad inasprire le relazioni tra le due Coree.
La posizione ufficiale di Seul è in realtà diversa, visto che il governo ha dichiarato di essere pronto a riaprire il dialogo. Il Ministero dell’Unificazione sudcoreano ha presentato un programma annuale i cui obiettivi principali sono non soltanto la pace e la stabilità della penisola ma anche i preparativi necessari in vista della futura riunificazione. In effetti però, Lee Myung-bak – che ha reputazione di politico pragmatico e deciso, al punto da essere soprannominato “Bulldozer” – ha sempre dimostrato un atteggiamento duro nei confronti della Corea del Nord: fin dall’inizio del suo mandato nel 2008, ha posto come condizione per inviare aiuti umanitari lo smantellamento del programma nucleare. I rapporti bilaterali si sono poi ulteriormente deteriorati in occasione del lancio dei missili nordcoreani nel 2009, che ha portato allo stallo dei”Six Party Talks” (le due Coree, Cina, Giappone, Stati Uniti, Russia) per la denuclearizzazione del paese, e dopo l’affondamento della corvetta sudcoreana Cheonan nel 2010 (causata da un siluro o da una mina).. A seguito di quell’episodio, Lee Myung-bak ha sospeso gli scambi commerciali tra le due Coree e limitato l’utilizzo di rotte marittime per le navi nordcoreane , oltre a chiedere una risoluzione di condanna con relative sanzioni al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, avvalendosi del supporto degli Stati Uniti.
Al momento, Kim Jong-un (l’erede designato da tempo) non ha cambiato la strategia seguita dal padre. Con fasi alterne di aperture e minacce, il giovane leader non sembra affatto voler rinunciare al programma nucleare, con tutti i suoi costi in termini di benessere della popolazione, ma è difficile stabilire se tale corso rimarrà invariato.
Su questo sfondo, il governo di Seul ha deciso di agire in diverse direzioni con l’obiettivo di legittimare comunque il dialogo e riaprire i negoziati. In termini di sicurezza militare, oltre allo schieramento lungo il confine intercoreano di 655.000 uomini (contro un milione e 200.000 soldati nordcoreani), il Sud può contare sull’appoggio dei 28.000 soldati americani della base di Yongsan e soprattutto sul rinnovato impegno da parte di Washington di garantire la sicurezza e la stabilità della penisola.
Sul piano del “soft power”, l’organizzazione umanitaria sudcoreana “Korea Peace Foundation” ha inviato a Pyongyang 180 tonnellate di farina per aiutare la popolazione a sopravvivere alla cronica scarsità di cibo, con un atteggiamento dunque più flessibile che in passato in materia di aiuti umanitari.
Infine, percorrendo una strada già tentata sul piano diplomatico, Lee Myung-bak è andato alla ricerca di un consenso internazionale rivolgendosi soprattutto, come è naturale, agli Stati Uniti e alla Cina. E’ chiaro che Seul intende non soltanto gestire i delicatissimi rapporti con il Nord, ma anche proporsi come potenza regionale in virtù del suo oggettivo peso economico: il paese si colloca al tredicesimo posto mondiale in base al Pil, e al quarto in Asia dopo Giappone, Cina e India. Appare dunque legittimo l’obiettivo di giocare un ruolo geopolitico significativo, sfruttando al meglio l’interesse americano e giapponese per una stretta cooperazione nell’intera regione Asia-Pacifico – interesse che è stato ribadito con molta enfasi nell’incontro trilaterale tenutosi a Washington dopo la morte di Kim Jong-il. In sostanza, la proiezione della politica estera sudcoreana può e vuole spingersi oltre la riapertura dei negoziati a sei per il futuro della penisola. Si inserisce in questo progetto complessivo anche la recente ratifica il Free Trade Agreement (FTA) tra gli Stati Uniti e la Corea del Sud che entrerà in vigore non appena i due paesi fisseranno la data di implementazione. Conosciuto come “Korus FTA”, si prevede che esso incrementerà di oltre il 5% le esportazioni della Corea del Sud e creerà 350.000 posti di lavoro. E potrebbe rivelarsi un tassello importante della più ambiziosa Trans-Pacific Partnership (TPP), cioè la creazione della più grande zona di libero scambio al mondo, che includerebbe 800 milioni di consumatori e il 40% del PIL globale.
Su questa linea convergono dunque grandi interessi, sia economici che geopolitici e di sicurezza, visto che l’integrazione commerciale e finanziaria del Pacifico costituisce per gli Stati Uniti anche una forma di contenimento dell’espansione cinese. Pechino non partecipa infatti alla PTT, se non altro perché non rispetta gli standard piuttosto alti che sono in via di definizione, ad esempio per i diritti dei lavoratori; ma Pechino si è ufficialmente dichiarata favorevole alla promozione di un’area di libero scambio.
Non va però dimenticato che, parallelamente, vi sono trattative in corso per un accordo di libero scambio tra la Corea del Sud e la Cina. Il presidente sudcoreano ha trascorso tre giorni in Cina in occasione del ventesimo anniversario delle relazioni sino-coreane – anni in cui l’interscambio commerciale è passato da 6,4 miliardi di dollari a 220 miliardi di dollari. Il rafforzamento della partnership economica e i possibili sviluppi con la Corea del Nord sono stati i temi centrali degli incontri tra Lee Myung-bak con il presidente cinese, Hu Jintao e il premier, Wen Jiabao. La questione nordcoreana è insomma il fattore strategico che sembra chiudere il cerchio tra Seul, Pechino e Washington, creando una sorta di imperativo di cooperazione: la Cina rimane il principale fornitore di cibo, armi ed energia per Pyongyang, e vede con enorme preoccupazione l’ipotesi di un collasso del regime, se non altro per i rischi di un incontrollato flusso di rifugiati dalle zone di confine. La strada quasi obbligata da percorrere è probabilmente quella di graduali riforme nordcoreane senza un vero “cambio di regime” traumatico.
Intanto non è possibile evitare alcuni episodi di tensione, come dimostrano le imminenti manovre militari congiunte delle forze sudcoreane e americane: l’operazione “Key Resolve”, prevista dal 27 febbraio al 9 marzo, vedrà impegnati 200.000 soldati sudcoreani, anche se è stata definita “un’esercitazione di routine”. Il governo nordcoreano ne è stato informato, ma ha comunque stigmatizzato l’operazione come una provocazione militare e la “simulazione di un attacco”.