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La “carbon tariff” come via d’uscita sul clima

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Gli USA e l’UE stanno considerando l’introduzione di una carbon tariff, nel tentativo di cautelarsi rispetto ad un sostanziale fallimento della conferenza di Copehnagen di dicembre. Tale misura appare essere una realistica via d’uscita non solo per preservare le imprese europee e americane dalla competizione sleale dei concorrenti cinesi e indiani, nel caso in cui i loro governi non firmassero un accordo di limitazione delle emissioni, ma anche per finanziare una rivoluzione verde nell’industria occidentale.

Le incoerenze degli europei e la delusione di Obama
L’Unione europea, grazie al cosidetto “pacchetto clima” adottato nel dicembre 2008, é l’unico attore internazionale che abbia adottato politiche vincolanti sul cambiamento climatico. Tuttavia, questi obiettivi appaiono essere eccessivamente ambiziosi per la sua economia.

Negli ultimi 3 trimestri si è registrato un crollo negli investimenti verdi non solo per le difficoltà di ottenere credito, ma anche per il prezzo del petrolio che nell’ultimo anno è rimasto mediamente sotto gli $85, diminuendo drasticamente i flussi di cassa dei gruppi energetici.

Inoltre, i gruppi industriali dei settori manifatturiero, siderurgico, delle costruzioni, sottolineano i rischi per i livelli occupazionali, viste le tempistiche e i costi della ristrutturazione richiesti dai vincoli del pacchetto clima.

Alle difficoltà dell’industria si somma l’incoerenza delle élites politiche europee: avendo adottato il pacchetto clima per porre l’UE nelle condizioni di guidare i negoziati internazionali, non riescono ora ad accordarsi sull’ammontare di fondi da destinare alla lotta al cambiamento climatico nei paesi in via di sviluppo. Se non si è in grado di finanziare la transizione verso un’economia a basso carbonio, si perde ovviamente moltissima credibilità.

Intanto, le speranze europee riposte nell’amministrazione Obama sono state finora deluse a causa dello scarso slancio ambientalista dell’”American Clean Energy and Security Act”: questa legge mira ad aumentare del 20% entro il 2020 l’utilizzo di energia da fonti rinnovabili e sviluppare su scala commerciale impianti per la cattura e lo stoccaggio del carbonio per le centrali elettriche. Sebbene tale proposta sia già stata approvata dalla Camera, molti senatori si oppongono, e il voto al Senato rimane in forte dubbio.  A pochi giorni dall’appuntamento di Copenhagen, anche a seguito delle pressioni europee, Obama ha rilanciato, affermando la propria disponibilità a ridurre le emissioni di gas serra del 17% entro il 2020 e del 42% entro il 2030, rispetto al 2005. Tale proposta, che non è certo incisiva se si prendono a riferimento le emissioni dell 1990 (come fa la UE), incontra comunque molte riserve a Washington. La mancata disponibilità delle principali potenze emergenti, soprattutto Cina e India, ad adottare obblighi vincolanti di riduzione, è il principale argomento utilizzato soprattutto dalle lobby industriali del Mid-West nel contrastare nuovi impegni americani.

Carbon Tariff come exit strategy
L’impasse nei negoziati internazionali ha portato a considerare la possibilità per l’UE e gli USA di introdurre una tassa su tutti prodotti importati da paesi privi di limiti vincolanti. Vi hanno fatto riferimento ad esempio il Presidente francese Nicolas Sarkozy e il Ministro americano per l’energia Chu. Tale tassa, definita “carbon tariff”, imporrebbe una aliquota fissa su tutti i beni importati, il cui processo produttivo comporti elevate emissioni di CO2 (“carbon intensive”), e permetterebbe la creazione di un “level playing field” limitando i rischi di competizione sleale.

Il governo americano potrebbe in questo modo incassare ogni anno circa 55 miliardi di dollari grazie all’introduzione di un’aliquota fissa del 17% su tutti i beni importati dalla Cina. Tali capitali potrebbero essere ad esempio reinvestiti per finanziare le misure necessarie alla conversione verso un’economia a basso carbonio, e quindi anche meno dipendente dalle importazioni di gas e petrolio. L’introduzione della tassa non violerebbe peraltro lo statuto dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), la quale permette l’introduzione di dazi doganali che comportino un minore impatto ambientale.

E’ però anche vero che una carbon tariff presenta delle complesse implicazioni a livello di politiche commerciali. La Cina è infatti il secondo partner commerciale dell’UE ed il primo degli USA, (le sue esportazioni ammontavano nel 2008 a 248 miliardi di euro in Europa ed a 338 miliardi di dollari negli USA), con un trend in netta crescita in entrambi i casi.

E’ chiaro quindi che l’introduzione di questa tassa potrebbe innescare una guerra commerciale fra i paesi maggiormente sviluppati e le economie emergenti, capeggiate da Cina e India. Nel corso dei negoziati tenutisi nei mesi di settembre e ottobre, i delegati cinesi hanno manifestato al capo negoziatore americano, Jonathan Pershing, le proprie preoccupazioni in tal senso, sottolineando i notevoli investimenti che il governo di Pechino sta attuando per la lotta al cambiamento climatico. I diplomatici cinesi hanno insomma posto l’accento sul rischio di una possibile deriva protezionistica a livello mondiale. Inoltre a livello UE appare molto difficile che tutti i Paesi Membri concordino non solo sull’introduzione di tale tariffa – il Regno Unito si è ad esempio già dichiarato contrario – ma anche sulla selezione dei prodotti e sottoprodotti che vi sarebbero soggetti. Infatti, è facile immaginare come ciascun paese a Bruxelles, in sede di Consiglio, cercherebbe di imporre la carbon tariff sui prodotti in competizione con quelli delle proprie industrie, chiedendo di esentare al contrario altri beni di importazione.

Possiamo ad esempio immaginare come l’Italia chiederebbe che i prodotti tessili cinesi (in competizione con il made in Italy) siano colpiti da tale misura, e siano invece esentati quelli high tech, mentre la Germania vorrebbe il contrario, ossia che i prodotti tessili non fossero tassati a dispetto di quelli high tech (in competizione con quelli della Siemens o della Bosch).

Finora sia gli USA che l’UE hanno evitato di insistere, come avrebbero potuto, sull’introduzione di tale misura proprio per la volontà delle diplomazie di cercare un compromesso con le economie emergenti. L’introduzione della carbon tariff appare in sostanza una “seconda scelta” nel tentativo di contrastare la competizione sleale. E’ altrettanto chiaro, però, che misure del genere potrebbero essere viste in ultima analisi come l’unico modo di evitare un fallimento totale a Copenhagen.

Se così sarà, diventerà cruciale la definizione dell’ammontare della carbon tariff, nonché dei beni che sarebbero colpiti: si dovrà cioè lavorare a rendere questa tassa uno strumento pragmatico in un sistema complesso di incentivi e disincentivi, non un’arma in una spirale di rappresaglie. E’ ancora presto per valutare in concreto una simile ipotesi, ma fin da ora è essenziale ricordare che una guerra commerciale non porterebbe beneficio a nessuna delle parti in causa.