Caratterizzati dal perdurare di divisioni profonde tra le diverse etnie, Kosovo e Bosnia-Erzegovina appaiono oggi i più deboli tra gli Stati dei Balcani. Le contraddizioni dei rispettivi assetti politico-istituzionali sono emerse con forza anche nei mesi passati: le elezioni locali in Kosovo e il censimento, il primo dal 1991, in Bosnia-Erzegovina hanno riacceso le tensioni e la retorica nazionalista.
In Kosovo episodi di violenza non sono rari e la sicurezza è garantita da una massiccia presenza internazionale, mentre in Bosnia-Erzegovina gli scontri si concentrano quasi esclusivamente nell’arena politica. In queste aree, destinate ad un futuro ingresso nell’Unione Europea e oggi entrambe con lo status di “candidato potenziale”, la contrapposizione etnica condiziona ancora in maniera molto forte gli orientamenti e le decisioni della politica.
In Kosovo, la posta in gioco alle elezioni di inizio novembre era verificare se la minoranza serba del paese, concentrata nelle municipalità del nord in cui costituisce maggioranza, avrebbe accettato l’accordo Serbia-Kosovo siglato ad aprile sotto gli auspici dell’UE. I risultati sono stati solo parzialmente confortanti. Al netto della bassa affluenza il risultato è frammentato e di sostanziale parità tra le liste ispirate direttamente da Belgrado (“Srpska”) e quelle serbo-kosovare (Iniziativa civica – SPS). Non si ha ancora un risultato netto perché i sindaci vengono eletti al ballottaggio, ma nella capitale serbo-kosovara Mitrovica governeranno queste due forze; del resto, i contrari all’accordo hanno scelto il boicottaggio, e dunque le liste presentate erano sostanzialmente favorevoli all’accordo.
Belgrado ha rinunciato al suo categorico “no” al riconoscimento del Kosovo in cambio della concessione di sostanziali autonomie alla comunità serba; d’altronde, il riconoscimento è una condizione considerata decisiva da Bruxelles per aprire le porte alla Serbia. Il punto centrale dell’accordo è l’integrazione nello Stato kosovaro delle istituzioni parallele create dai serbi. Lo stesso premier serbo Ivica Dacić si è speso in prima persona perché la minoranza serba in Kosovo, tradizionalmente tutt’altro che favorevole a integrarsi con Pristina, testimoniasse invece con un’alta partecipazione al voto la sua adesione ai termini dell’accordo.
L’affluenza, tuttavia, è stata bassa, più che nel resto del paese (circa 25% contro 50, secondo i primi dati comunicati dall’OSCE). Diffuse violenze e intimidazioni hanno caratterizzato poi il voto nelle città del nord. Il fatto più grave ha portato ad invalidare, e ripetere, le elezioni in tre sezioni a Mitrovica Nord: uomini armati di lacrimogeni sono entrati in uno dei seggi e hanno distrutto urne e registri elettorali. La partecipazione va perciò considerata anche alla luce del timore di violenze e della pressante campagna di boicottaggio. La stessa gestione del voto, caratterizzata da notevoli problemi organizzativi, può aver influito sull’esito complessivo. La presenza di un elettore su quattro alle urne è quindi, in effetti, un passo avanti significativo rispetto al passato: considerare la scarsa partecipazione un fallimento sarebbe eccessivo.
Da parte sua, la Serbia è sempre più riluttante ad intervenire nelle vicende del Kosovo ed appare ormai determinata a seguire le indicazioni europee. A meno di repentini cambi di umore nell’élite di Belgrado, la minoranza serba in Kosovo sarà costretta ad accettare questo dato di fatto e, di conseguenza, a perdere il principale alleato nelle sue mire secessioniste. Queste elezioni, in definitiva, potranno essere comprese solo alla luce degli sviluppi futuri, quando si capirà se la scarsa partecipazione è stata solo un ultimo, velleitario tentativo di rimanere attaccati alla “madrepatria”, oppure se contribuirà a far naufragare l’accordo tra i due paesi.
Diverso è il caso della Bosnia-Erzegovina, che ormai da anni vive un quasi totale immobilismo. La legislatura iniziata nel 2010 è stata un disastro sia a livello centrale, sia a livello delle due entità “regionali” (Republika Srpska e Federazione di Bosnia ed Erzegovina, due autonomie territoriali dotate di estesi poteri legislativi ed amministrativi). A livello centrale, il già traballante governo è stato formato dopo ben 14 mesi di estenuanti trattative e insuccessi. Le entità regionali sono egualmente instabili, schiacciate da problemi fiscali, in stagnazione economica: languono gli investimenti esteri, la disoccupazione ufficiale supera il 40% e la crescita trainata dalla ricostruzione post-bellica è un lontano ricordo.
Ad oggi, l’unico vero successo della legislatura è stata la messa in opera del censimento, atto necessario per un funzionamento normale del paese, e considerato da Bruxelles decisivo sulla strada dell’accesso all’Unione. Si è trattato in ogni caso di un evento carico di tensioni e di problemi. Il punto critico è stata l’inclusione di tre domande riguardanti etnia, religione e lingua nel questionario diffuso tra la popolazione. La Bosnia-Erzegovina si regge, infatti, sulla finzione giuridica dei “tre popoli costitutivi”: croati, serbi e Bosgnacchi. Le tre ex parti belligeranti, in breve, si sono spartite le cariche politiche in modo paritario e godono di estesi diritti di veto su qualsiasi decisione.
Il censimento, attraverso quelle tre domande, farà emergere i veri rapporti di forza tra le etnie, tutt’altro che paritari. Il “rischio” maggiore è quello di avere una prova certa della pulizia etnica, in particolare nelle zone attualmente a maggioranza serba, e più in generale di certificare gli sconvolgimenti demografici portati dalla guerra. La concentrazione delle etnie in zone omogenee, la probabile netta diminuzione dei croati e l’aumento, in termini relativi, del numero di Bosniaci musulmani sono elementi capaci di riaccendere la diffidenza tra le etnie e dare forza alle spinte secessioniste.
In secondo luogo, numeri certi riguardo alle etnie rischiano di mettere in crisi la delicata architettura del trattato di pace. Il problema non risiede tanto nelle cariche politiche, per le quali è verosimile che nessuno contesterà il principio di spartizione paritaria finora adottato. Un impatto molto maggiore sulla vita quotidiana del paese avrebbe, invece, un aggiornamento delle quote etniche nelle pubbliche amministrazioni, definite a partire dal vecchio censimento.
Il sistema di quote per molti versi è inadatto a una selezione trasparente e meritocratica dei funzionari, ma ha garantito una polizia e un sistema giudiziario almeno parzialmente multietnici. Questo è stato un importante freno ai rischi di discriminazione e non è un successo marginale: la complessa struttura di autonomie locali introdotta in Bosnia si basa prevalentemente su unità politico-amministrative riferite ad aree geografiche oggi dominate da un’etnia sola. Invece, senza il vecchio sistema di quote, riferito a un paesaggio etnico molto più frammentato, l’etnia dominante localmente avrebbe potuto occupare tutte le cariche, anche nella polizia e nei tribunali. Un sistema basato su quote più realistiche potrebbe dunque non essere in grado di garantire i diritti delle minoranze.
Il censimento potrebbe segnare un passaggio importante verso la normalizzazione del paese: in un certo senso, per la prima volta la Bosnia tenta di fare apertamente i conti col suo passato. Grazie all’inserimento delle tre domande “etniche”, voluto dai politici locali contro il parere di autorevoli osservatori, questo rischia forse di trasformarsi in un autogol; per il momento, comunque, il censimento è stato generalmente bene accolto, e a parte alcuni problemi gestionali non ci sono stati episodi di boicottaggio o tentativi di alterare i dati.
Malgrado le difficoltà evidenziate, le elezioni nel nord del Kosovo e il censimento in Bosnia sono novità positive ed impensabili fino a qualche anno addietro. L’atteggiamento più disteso della Serbia, cooperativa in Kosovo e indifferente in Bosnia, è un ulteriore elemento di ottimismo in vista di una distensione nell’ambito delle questioni etniche ancora aperte. Questi paesi devono però ancora risolvere sostanziali problemi di funzionamento delle istituzioni e dell’economia: senza un tale consolidamento, è facile pensare che, quando se ne presenti l’occasione, le fratture etniche tornino a rappresentare una potente fonte di divisione e di conflitto. Bruxelles ha messo a disposizione enormi risorse economiche e politiche per il cambiamento; gli ostacoli maggiori rimangono interni: corruzione, inefficienze diffuse nel pubblico e nel privato, rendite di posizione. Intanto, almeno l’alibi di un vicino scomodo – la Serbia – è sempre meno valido, tanto in Kosovo quanto in Bosnia.