L’accordo sull’Afghanistan siglato a Istanbul da 14 paesi, il 2 novembre, non ha attirato grande attenzione internazionale, ma merita una riflessione. Sulle rive del Bosforo, un antico palazzo di epoca ottomana ha visto muovere i primi passi del tentativo di creare una cornice di sicurezza e cooperazione per dragare il pantano afgano. Strada in salita, è chiaro, e per ora poco più che una dichiarazione di intenti. Eppure, il cosiddetto “processo di Istanbul” si prefigge espressamente di creare le condizioni regionali per la rinascita di un Afghanistan «stabile e sicuro». La Conferenza internazionale è stata ufficialmente co-organizzata da Turchia e Afghanistan e, oltre al paese ospitante e ai rappresentanti afgani, ha visto la partecipazione di 12 Paesi che gravitano attorno all’universo dell’Hindukush: Pakistan, India, Cina, Kazakihstan, Russia, Iran, Tajikistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kyrgyzstan, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti. Come osservatori c’erano un’altra dozzina di soggetti tra cui la UE e vari paesi europei (Italia compresa), USA, Giappone, Canada, e ONU.
L’iniziativa rientra senza dubbio nella logica di una politica estera turca di forte proiezione verso est, visto che l’obiettivo ultimo è la creazione di una sorta di OSCE asiatica (ispirata al processo di Helsinki avviato negli anni ’70 del secolo scorso che ha portato alla nascita di una vera organizzazione paneuropea di sicurezza).
Le difficoltà ovviamente sono molte, ed erano iniziate fin dal nome dell’evento: “Conferenza di Istanbul sull’Afghanistan: sicurezza e cooperazione nel cuore dell’Asia”. Gli afgani non volevano infatti una conferenza sull’Afghanistan ma un summit regionale dove Kabul sarebbe stata sì nel cuore dell’Asia, ma non il cuore del problema.
Ma i problemi di maggiore sostanza sono emersi nella compilazione della lista dei partecipanti, non solo né soprattutto per il concetto lasco di paese “confinante”: almeno quattro Paesi non sembravano infatti vedere favorevolmente un processo dagli esiti incerti che solleva molti sospetti.
Anzitutto, il Pakistan, il quale non ama che sulle questioni afgane ci siano troppi giocatori a un tavolo dove Islamabad non nasconde di voler giocare il ruolo del banco.
C’è poi l’atteggiamento della Russia, a lungo tenuta fuori dal “Grande Gioco”, che non ha interesse alla nascita di una nuova organizzazione regionale con la presenza degli Stati Uniti e dell’Europa. Per Mosca il meccanismo c’è già e si chiama SCO (Shanghai Cooperation Organisation), organizzazione regionale eminentemente asiatica dove gli Usa non sono presenti, il Pakistan e l’India hanno lo status di osservatori, e l’Afghanistan è agganciato dal 2005 con lo “Sco-Afghanistan Contact Group”.
Anche la Cina è tiepida su nuovi meccanismi regionali, in parte perché Pechino, come Mosca, è tra i fondatori e azionisti di riferimento della SCO. Infine l’Iran: Teheran teme soprattutto la crescente influenza di Ankara e l’aumento della sua statura geopolitica nella vasta regione asiatica.
A fronte di queste difficoltà, l’accordo-quadro è stato firmato, con il sostegno degli europei, degli americani e dell’Onu (era presente Staffan De Mistura per Unama, la missione Onu a Kabul). Come spiega l’inviato speciale italiano per Afghanistan e Pakistan, Francesco Maria Talò, “Si tratta di un impegno sul lungo periodo. Il timore a Istanbul era che la conferenza venisse in qualche modo annacquata dai Paesi più restii ad assumersi questo impegno; timore che è stato fugato dalle firme in calce al documento. Per adesso – conclude il diplomatico – il risultato di Istanbul non è molto più di un menù. Che però può essere riempito di contenuti”. L’Italia (la delegazione era guidato dal sottosegretario Stefania Craxi) sembra credere che in qualche modo il futuro afgano del dopo Istanbul sia un po’ più roseo. Atteggiamento che in Europa è largamente condiviso, anche se il vero tassello mancante – per quel che riguarda il processo di transizione a Kabul – è la Conferenza di Bonn che si terrà in Germania a dicembre, a dieci anni da quella storica del 2001 che disegnò – arditamente– il “nuovo Afghanistan”.
Per prendere a prestito quanto ha scritto alla vigilia del summit Thomas Ruttig, un analista dell’autorevole Afghanistan Analysts Network di Kabul, Istanbul ha anche dimostrato che è venuto il momento di altri attori, a dimostrazione che l’Occidente ha sbagliato nel convincersi “di poter maneggiare il caso afgano solo attraverso la Nato”, lasciando Russia, Cina Iran, e altri, fuori dalla porta. Una lettura che ora sembra decisamente confermata dai fatti.
Negli stessi giorni della conferenza, Kabul ha annunciato la seconda fase del processo di “transizione” che, da qui al 2014, dovrebbe passare il dossier sicurezza in mani afgane. (interessando 17 province di cui 7 per intero – Daikundi, Nimroz, Parwan, Samangan, Sar-i -Pul, Takhar, Balkh). E’ evidente che questi passaggi avranno comunque bisogno di una cornice internazionale propizia, vista la gravità della sfida interna.
Chissà dunque che l’ambizioso progetto perseguito dagli eredi della Sublime Porta non faccia davvero qualche passo avanti. Gul ed Erdogan un altro successo l’hanno comunque ottenuto: in un momento davvero difficile nei rapporti tra Pakistan e Afghanistan, si è tenuto un incontro trilaterale prima del summit di Istanbul. E l’incontro sembra aver sortito qualche effetto, smorzando certi toni polemici tra due vicini che non smettono di guardarsi con sospetto.