Da quando, lo scorso ottobre, Netanyahu ha deciso di sciogliere anticipatamente il proprio governo e ha annunciato la fusione del proprio partito – il Likud – con un altro partito dell’aria nazionalista – l’Israel Beiteinu (Israele Casa Nostra) del ministro degli Esteri e vice primo ministro Avigdor Lieberman – è stato chiaro che la vittoria sarebbe andata all’unica forza maggioritaria capace di guidare stabilmente il paese per i prossimi cinque anni. La mossa di Netanyahu, infatti, altro non era che un tentativo di forzare i giochi e anticipare la formazione di un governo più forte, che avrebbe potuto fare a meno dell’appoggio dei partiti religiosi nella coalizione. Allora, infatti, si parlava di un governo guidato dalla destra laica e nazionalista che avrebbe avuto i numeri necessari per riformare o revocare la famosa Legge Tal, che definisce i rapporti tra stato e ultraortodossi, permettendo l’esenzione di migliaia di giovani religiosi dal servizio militare e il loro sostentamento a spese dello Stato. Questa legge è considerata da molti un serio ostacolo allo sviluppo economico del paese, in virtù della discriminazione positiva adottata nei confronti degli haredim (o ultraortodossi), ormai un quinto della popolazione totale. Tale condizione, abbinata alle continue richieste dei partiti religiosi di sussidi e finanziamenti statali e dal potere politico che questi partiti esercitano (soprattutto grazie al loro monopolio di ministeri importanti come quello delle Costruzioni), ha creato notevoli squilibri sia politici che economici. Gli ultraortodossi infatti non danno un contributo diretto né alla difesa né all’economia di Israele, ma pesano in misura ingente sulle finanze dello Stato.
Sebbene il consenso dell’elettorato laico a favore di una revisione della legge abbia giocato un ruolo importante nel convincere il premier uscente a dissolvere il parlamento, gli ultimi sondaggi sembrano indicare che la questione abbia perso rilevanza. All’ordine del giorno sono invece tornate la questione degli insediamenti, il futuro della West Bank e dei Palestinesi che vi risiedono. Se l’ultimo governo Netanyahu ha inizialmente pagato un tributo simbolico al principio dei “due Stati per due popoli”, è chiaro che oggi la sua principale preoccupazione è incentivare la costruzione di nuovi quartieri ebraici nelle aree palestinesi sotto il controllo militare dell’esercito israeliano (la cosiddetta “area C” secondo la tripartizione degli Accordi di Oslo). Questo sia per far fronte alla pressione sociale legata al costo degli affitti, che per riaffermare il sostegno politico e simbolico del Likud-Beiteinu alla colonizzazione dei territori occupati: va in tale direzione la recente decisione in merito alla costruzione di 1.200 nuove unità abitative a Gerusalemme est.
La tendenza viene rafforzata ulteriormente dalla crescita dei consensi per il partito dei nazionalisti religiosi HaBayit HaYehudi (La Casa Ebraica), principale avversario del Likud-Beiteinu. La Casa Ebraica – che alle ultime elezioni del 2009 sembrava un partito in caduta libera (sotto il vecchio nome di Nazionalisti Religiosi) – è dato oggi in forte risalita (14 potenziali seggi). È guidato da Naftali Bennet, un ebreo di origini americane che presenta una biografia e un programma del tutto simile a quelli del Netanyahu di qualche anno fa.
Non sembra, invece, aver pesato nelle valutazioni elettorali il processo per frode avviato nei confronti di Avigdor Lieberman, che ha portato alle sue dimissioni in dicembre senza che queste compromettessero la tenuta del governo. Colpisce come le accuse non abbiano minimamente scalfito la sua popolarità personale.
Né stanno danneggiando il governo le ridimensionate stime di crescita del paese, che secondo il ministro delle Finanze uscente Yuval Steinitz si dovrebbe attestare intorno al 3,3%: la più debole degli ultimi tre anni.
L’ala dei partiti di centro-sinistra è staccata di almeno 11 seggi da quella del centro-destra (che raggiunge 67 seggi). Nonostante dunque la battaglia politica si consumi tutta nel campo della destra, non è per questo meno accesa. La situazione è in qualche modo paradossale: in apparenza, è difficile cogliere le differenze sostanziali tra i due partiti – Likud-Beiteinu e HaBayit HaYehudi – dal momento che entrambi puntano alla rappresentanza della fetta più nazionalista dell’elettorato e dei coloni, ma in realtà le differenze sono significative.
La Casa Ebraica rappresenta una versione più estremista del Likud, tanto nella composizione delle liste che nella piattaforma politica. Se, infatti, il Likud-Beiteinu punta a parificare giuridicamente e politicamente gli insediamenti con il resto del territorio israeliano, HaBayit HaYehudi parla chiaramente di annessione formale delle colonie, con la possibilità di incorporare l’intera West Bank qualora il partito vincesse le elezioni. La Casa Ebraica, del resto, nasce proprio come un partito di coloni, gruppo che rappresenta quasi la metà dei suoi candidati, ispiratori di un’agenda “populista” che si batte per l’abbassamento dei prezzi dei generi alimentari e dei beni di prima necessità, inclusi gli affitti, e per la riduzione dell’inflazione. Oltre ai coloni, è un partito che vuole rappresentare quegli “ortodossi moderni”, che in Israele coniugano l’osservanza stretta dei comandamenti della Bibbia con carriere professionali e partecipazione nell’esercito. È dunque una sfida diretta per Netanyahu, alla ricerca anche del consenso dei nazionalisti laici (russi e non) che hanno tradizionalmente formato lo “zoccolo duro” del Likud e di Israel Beiteinu. Il mix di questi elettorati potrebbe facilmente spingere il futuro governo israeliano ancora più a destra.
Il vero problema sarà per Netanyahu riuscire a formare una coalizione. Fino ad oggi, gli attacchi e la campagna contro i partiti di estrema destra aveva lasciato supporre che il Likud-Beiteinu si sarebbe alleato con il Partito Laburista di Yachomovich. Tale scelta poteva apparire paradossale agli osservatori esterni, ma non a quelli locali, che consideravano il Labour e il blocco governativo complementari: il nuovo governo a guida Netanyahu avrebbe infatti potuto contare sul silenzio-assenso del Labour sul conflitto arabo-israeliano e le colonie, e avrebbe in cambio “ammorbidito” le scelte di politica economica, assecondando alcune delle principali richieste sociali del partito laburista. Tuttavia, la dichiarazione rilasciata lo scorso 2 gennaio dalla Yachimovich, in cui si negava la possibilità che il suo partito entrasse in una coalizione con la destra, ha rimescolato le carte.
Data l’analoga presa di posizione del partito HaTnuah (il Movimento) di Tzipi Livni, a Netanyahu restano appunto le due opzioni che abbiamo visto: l’alleanza con il partito di centro-sinistra Yesh Atid di Yair Lapid oppure con La Casa Ebraica. Il primo non porrebbe un serio ostacolo alla legalizzazione e annessione delle colonie, ma vorrebbe limitare il peso dei partiti religiosi. Una grande alleanza con HaBayit HaYehudi, invece, potrebbe includere anche altri partiti religiosi (ma difficilmente lo Shas, il partito etnico-religioso degli ebrei di origine dei paesi arabi, che è in rotta di collisione con i partiti “bianchi” dei russi rappresentati da Israel Beiteinu) e risulterebbe una forza maggioritaria nel paese.
Nell’incertezza che circonda ogni elezione alla vigilia, è possibile evidenziare almeno alcuni elementi certi: in primo luogo la completa irrilevanza delle “primavere arabe”, che non figurano nemmeno come un tema di discussione in tema di politica estera. Colpisce poi l’assenza di un dibattito sull’immigrazione non-ebraica (i lavoratori stranieri) e i rifugiati africani, pur essendo stato un tema molto trattato dai media dal 2011. Infine, i grandi assenti dal dibattito pubblico sono gli Accordi di Oslo e i Palestinesi (tanto di Hamas che di Fatah). Gli accordi del 1993, decretati morti da quasi tutte le forze politiche “sioniste” tranne Meretz (un piccolo partito di sinistra che dovrebbe ottenere solo due seggi alla prossima Knesset), hanno lasciato il passo a un dibattito serrato sulle colonie e sulla necessità o meno di annettere formalmente la West Bank in modo da superare l’ambiguità giuridica in cui i territori occupati versano dal 1967. Quanto ai Palestinesi, essi non figurano né come partner né come temibili nemici, ma semplicemente come una massa di persone prive della cittadinanza il cui futuro verrà deciso a breve dagli equilibri interni alla nuova coalizione.
Non è quindi così sorprendente che gli arabo-israeliani, ovvero i cittadini arabi di Israele – drusi, cristiani e musulmani, che ammontano al 20% della popolazione – si asterranno in massa. La loro affluenza prevista non supera il 50%, cioè la più bassa degli ultimi vent’anni: è chiaro in partenza che i partiti da loro eletti non entreranno al governo, e siederanno in un parlamento che marcherà un avanzamento netto delle forze nazionaliste e antiarabe. Al contrario, è invece sorprendente che i dati presentati dall’Istituto di Democrazia Israeliano riportino un indice di ottimismo dell’elettorato ebraico pari al 75.6% sulla situazione attuale e il futuro della democrazia del paese.