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Iraq: la fuga dei cristiani e la frammentazione del quadro politico

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Alla vigilia di Natale, il governo iracheno guidato dallo sciita Nouri al-Maliki ha riconosciuto il 25 dicembre come festa nazionale. Ma questa importante vittoria per il capo della Chiesa cattolica irachena, il patriarca di Babilonia e arcivescovo di Baghdad, Louis Raphael Sako, non deve alimentare illusioni sulla reale situazione dei cristiani nel Paese. Anche perché è coincisa con una grave recrudescenza di attentati in Iraq tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014, che ha coinvolto anche i cristiani –mentre i gruppi affiliati ad Al-Qaeda prendevano il controllo di Falluja.

A dieci anni dalla cattura di Saddam Hussein da parte delle forze americane, la comunità cristiana irachena risulta decimata dall’emigrazione e lamenta pesanti forme di discriminazione da parte dell’attuale governo. I numeri sono eloquenti: dieci anni fa i cristiani in Iraq erano oltre un milione, oggi non arrivano a 450.000. Nel 1959 a Baghdad erano 500.000 su una popolazione che superava appena il milione; ora sono appena 150.000, mentre nel frattempo gli abitanti della capitale sono diventati sei milioni. Nel quartiere di Dora, riferisce il nunzio apostolico in Iraq e Giordania, monsignor Giorgio Lingua, “un tempo vivevano 100.000 cristiani, oggi raggiungono a stento i 3.000”. Si tratta di un fenomeno che ha una pesante implicazione simbolica: i cristiani rischiano di sparire dalla terra che è stata la patria di Abramo, il luogo dove ha avuto inizio la “storia della salvezza”. Molte delle comunità cristiane irachene parlano addirittura l’aramaico, la lingua di Gesù. Del resto, anche la comunità ebraica è ormai ridotta a poche famiglie.

L’esodo dei cristiani si dirige principalmente verso gli Stati Uniti e l’Europa. La città di Detroit in dieci anni è diventata la diocesi cattolica irachena più popolosa del mondo passando da 5.000 a 150.000 fedeli di rito caldeo. Molti altri sono a San Diego in California.

I cattolici rimasti in Iraq sono attualmente circa 290.000, per l’80% caldei, quindi siro-cattolici, armeni, melchiti e latini, a seconda del rito che utilizzano per celebrare la Messa. Ciascuna denominazione ha un proprio arcivescovo e tutti si ritrovano nel Sinodo guidato dal patriarca di Babilonia. I cristiani ortodossi sono a loro volta suddivisi in analoghe denominazioni, in particolare assiri, siriaci e armeni. Geograficamente i cristiani sono distribuiti principalmente tra Baghdad, Mossul, la piana di Ninive e il Kurdistan iracheno. Molto pochi quelli rimasti al sud, a Bassora, Nassiriya e nella regione del Thi-Qar, solo alcune decine di famiglie a Babilonia. Questo significa che i cristiani sono stati progressivamente tagliati fuori dal tessuto produttivo del Paese, strutturato prevalentemente al sud, mentre a Baghdad hanno molta difficoltà a inserirsi nei ranghi della pubblica amministrazione.

Gli attentati dei quali sono state fatte oggetto diverse chiese negli ultimi anni hanno amplificato il sentimento di paura e di precarietà che attraversa le comunità cristiane irachene. Il più grave è stato quello del 31 ottobre 2010 nella cattedrale siro-cattolica di Baghdad, Nostra Signora della Salvezza, quando un commando di terroristi fece irruzione durante la Messa e tenne in ostaggio i fedeli per ore, finché si fece esplodere provocando 45 morti (tra i quali anche due bambini) e decine di feriti. Da quel momento le comunità cristiane hanno ottenuto di poter avere tutte le chiese protette da guardie armate cristiane. L’ingresso alle celebrazioni è strettamente controllato, ogni fedele viene perquisito prima di entrare in chiesa.

I cristiani pagano anche il prezzo del ruolo di primo piano avuto durante il regime di Saddam. Di fede cattolica caldea era infatti il braccio destro del dittatore, Tarek Aziz, che è attualmente in carcere e sul quale grava dal 2010 una sentenza di condanna a morte.

Da sempre molto forte e presente nel campo dell’educazione, la Chiesa irachena comincia ad avvertire pure una certa difficoltà nella gestione delle scuole cattoliche che fino ad oggi sono state luoghi di formazione anche per l’élite e la classe dirigente musulmana. È diventato meno agevole, infatti, reperire insegnanti ed educatori cristiani disponibili a prestare servizio in queste scuole, poiché molti di essi sono emigrati.

Tuttavia sarebbe parziale e incompleto attribuire la progressiva emarginazione dei cristiani in Iraq esclusivamente a fattori ambientali e alla storia politico-religiosa del Paese. Un altro pesante elemento di debolezza per i cristiani iracheni è infatti rappresentato dalle divisioni interne alle loro stesse comunità. Dopo il rapimento e l’uccisione dell’arcivescovo di Mosul, monsignor Paulos Faraj Raho, nel 2008, la guida della diocesi è rimasta vacante per oltre un anno poiché il Sinodo non trovava un accordo sulla figura del successore (poi individuato nella persona di monsignor Emil Shimoun Nona). Non è stata facile neppure la nomina del nuovo patriarca di Babilonia e arcivescovo di Baghdad, Sako (che ha preso il posto del cardinale Emmanuel III Delly, dimissionario per raggiunti limiti di età dopo un incarico di oltre un decennio). Sako, che proveniva dalla diocesi di Kirkuk nel nord del Paese, ha trovato una Chiesa cattolica non solo divisa ma anche molto segnata dalla corruzione e da un certo disordine. Tanto da essere costretto addirittura a scrivere una lettera pubblica ai sacerdoti per richiamarli ai loro doveri.

In questo documento del 3 luglio scorso, il patriarca Sako denuncia che “alcuni sacerdoti hanno fatto delle loro parrocchie dei piccoli imperi”. Altri “sono partiti dall’Iraq senza permesso del vescovo, hanno fatto domanda di asilo politico o hanno lasciato la propria Chiesa e si sono uniti a un’altra Chiesa”. Il difficile percorso per il rinnovamento e il riassetto della Chiesa irachena ha visto un’altra tappa importante con l’elezione, da parte del Sinodo, dei nuovi vescovi di Bassora, Kirkuk e del nuovo ausiliare di Baghdad, confermati nei giorni scorsi dal pontefice.

Le divisioni interne alle Chiese cristiane irachene hanno una rilevante proiezione politica: il 30 aprile, alle prossime elezioni parlamentari, i partiti cristiani saranno almeno sette. Una frammentazione che si era già registrata lo scorso mese di settembre in occasione delle elezioni in Kurdistan, con il proliferare di liste cristiane concorrenti tra loro. In vista delle prossime elezioni politiche nazionali si profila inoltre la creazione di un’alleanza privilegiata tra i cristiani e l’Islamic Supreme Council of Iraq (ISCI), il partito sciita guidato da Ammar al-Hakim. Proprio l’ipotesi di questo asse tra i cristiani e alcune formazioni sciite, che avrebbe un peso molto significativo nel definire le maggioranze del futuro parlamento iracheno, è fonte di grande preoccupazione per i partiti sunniti; e non è da escludere che rappresenti una delle ragioni dietro la recrudescenza degli attentati nelle ultime settimane.