Saranno anche toni retorici che nascondono una disponibilità reale alla trattativa, come ci si ostina a credere, ma certo non aiutano l’Amministrazione Obama a mantenere l’offerta di negoziati diretti e senza precondizioni avanzata ormai un anno fa. E del resto, se in diplomazia il tempismo e la sintonia sono essenziali, nel decennio passata né Washington né Teheran sono riusciti a sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda: quando la dirigenza della Repubblica islamica era pronta alle trattative non lo era la Casa Bianca, e viceversa.
Per anni ho duramente criticato – come altri osservatori – l’atteggiamento di chiusura irragionevole da parte della passata amministrazione statunitense, così come la sua incapacità nel capire le percezioni di minaccia e il senso di insicurezza e isolamento dell’Iran. Il mantra statunitense era in quegli anni «we do not speak with the devil», secondo la celebre frase con cui il vice-presidente Dick Cheney negò ogni possibile trattativa diretta sul nucleare.
Sono stati proprio quella politica di chiusura e l’atteggiamento dogmatico e allo stesso tempo velleitario degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran, a contribuire al fallimento delle trattative fra UE3 (Francia, Germania e Gran Bretagna) e Teheran. E sempre sulla Casa Bianca ricadono le colpe per aver spinto gli europei a rifiutare la proposta di accordo avanzata nell’aprile 2005 dall’allora negoziatore nucleare Hassan Rowhani. Avessimo accettato quell’offerta di compromesso, oggi avremmo forse un Iran con poche decine di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio e vincolato dall’Additional Protocol del Trattato di Non-Proliferazione. E non saremmo alla ricerca spasmodica di un incerto compromesso con un governo ultra-radicale che dispone ormai di migliaia di centrifughe e di grandi quantità di LEU (uranio debolmente arricchito).
Insomma, le passate strategie di contenimento e di isolamento dell’Iran sono fallite e hanno prodotto enormi costi geopolitici, favorendo di fatto un indurimento della politica estera iraniana. Un processo che ha indebolito i riformisti di quel paese, favorendo l’ascesa e poi il consolidamento degli ultra-radicali e delle forze di sicurezza a ogni livello del potere politico, economico e sociale.
E’ anche come reazione ai fallimenti e agli effetti controproducenti di quelle politiche che la nuova amministrazione statunitense ha deciso di offrire negoziati diretti e senza precondizioni. Sfortunatamente per Obama, poco dopo in Iran è scoppiata la crisi elettorale del giugno scorso. Come dimostrato da analisi comparative dei flussi di voto[1] – e come parzialmente ammesso anche dal Consiglio dei Guardiani – una massiccia frode elettorale ha manipolato e probabilmente sovvertito il risultato elettorale. Un fatto senza precedenti nella storia della Repubblica Islamica, che ha provocato una duratura protesta popolare, la cosiddetta “Onda Verde”.
Il governo e le forze para-militari dei pasdaran e dei bassij hanno reagito con l’usuale alternanza di repressione violenta, minacce, arresti e appelli alla ragionevolezza. Per mesi tuttavia, le manifestazioni sono continuate, anche perché sostenute da segmenti importanti di una élite di potere post- rivoluzionaria ormai frammentata. La frode elettorale, di fatto, ha polarizzato oltre ogni misura questa élite. Se il risultato immediato, ossia la repressione delle proteste, non è mai stato in discussione, ancora da comprendere pienamente sono gli effetti a medio-lungo termine, con la fine della capacità di “accomodare” il dissenso interno e di mantenere una formale unità politica fra le contrapposte fazioni. Di fatto, l’Iran di oggi è governato da un regime più rigido e bloccato.
Il dilemma a quel punto era se sostenere le proteste o meno. La consapevolezza che ogni pressione dall’esterno avrebbe avuto effetti controproducenti si è unita all’idea, tanto cinica quanto naïve, che un regime indebolito dalle proteste avrebbe potuto ammorbidire le proprie posizioni in tema nucleare. Da qui la decisione di tenere un profilo bassissimo circa la repressione delle proteste: in molti circoli politici occidentali non si faceva mistero di considerare i riformisti come un agnello facilmente sacrificabile sull’altare del compromesso nucleare.
La scommessa però non ha pagato: Ahmadinejad ha represso senza scrupoli le dimostrazioni popolari e l’Occidente non ha avuto il suo accordo nucleare. Certo, bisognava evitare di offrire pretesti a Teheran per accusare i riformisti di essere le “quinte colonne” all’interno della Repubblica Islamica. Tuttavia, come avvenuto in passato, non mancavano i canali per far capire alla Guida suprema (l’ayatollah Ali Khamenei) che nessuno cercava un velleitario “regime change”, ma anche che certi livelli di repressione erano intollerabili.
Giunti al punto dove siamo, non è più il momento di rincorrere Ahmadinejad. Proprio in considerazione del fatto che il presidente e i pasdaran hanno polarizzato lo scenario politico interno, si può cercare di far capire alla Guida Suprema che l’Occidente è davvero aperto a negoziati a tutto campo, ma che la repressione attuata da Ahmadinejad e dagli ultra-radicali non rafforza la Repubblica Islamica, ma al contrario la indebolisce. Di fatto, è quanto stanno già facendo all’interno i conservatori pragmatici (Rafsanjani in testa), cercando di de-polarizzare il quadro politico. E’ probabilmente l’ultima possibilità per Khamenei di evitare una trasformazione drammatica dei meccanismi di potere interni e un ancor maggiore isolamento internazionale.
Parimenti, dobbiamo affrontare la nostra ossessione per il programma iraniano di arricchimento dell’uranio: non saranno le soluzioni tecniche, per quanto immaginifiche, a tenere l’Iran a una «latent nuclear capability», bensì sistemi più efficaci di verifiche e un clima regionale e internazionale meno negativo.
Per anni ho partecipato a programmi “Track-2” con l’Iran, cioè ad incontri informali al livello di esperti e società civile. Li considero ancora un utile strumento, viste le difficoltà nel superare un atteggiamento antagonistico nelle relazioni con Teheran. Tuttavia, bisogna comprendere il mutato scenario: l’offerta avanzata dalla comunità internazionale a Vienna e Ginevra lo scorso autunno era un compromesso onorevole e vantaggioso per l’Iran, e si basava su quanto di meglio prodotto in anni di contatti e negoziati. L’offerta è ancora valida e certo si possono studiare altre migliorie per renderla più appetibile. Tuttavia, dobbiamo smetterla di rincorrere Teheran con sempre nuove ipotesi, cedendo alle continue nuove richieste dei suoi negoziatori. L’offerta fatta è stata discussa, quasi accettata, quasi rifiutata, rinegoziata, rinnegata – con ogni altra possibile sfumatura di scarsa chiarezza. Nel frattempo, l’Iran continua con la repressione di riformisti, intellettuali, professori, studenti, attivisti per i diritti delle donne e delle minoranze. Qualunque semplice cittadino può entrare nel mirino delle paranoiche forze di sicurezza. E noi continuiamo a stare zitti.
In passato, la mancanza di credibilità è stata una delle principali cause di fallimento delle politiche statunitensi nel Medio Oriente, dato che la retorica sulla democratizzazione non riusciva a nascondere né i doppi standard adottati né i silenzi verso le colpe dei propri clientes. Dobbiamo ora evitare il rischio di imbarcarci in una forma di realpolitik debole e altrettanto poco credibile.
[1] Cf. A. Ansari (Ed.), Preliminary Analysis of the Voting Figures in Iran’s 2009 Presidential Election, Chatham House paper, 21 June 2009.