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Intervista a Olivier Roy: Il panorama mediorientale e le rivoluzioni post-islamiste

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“Non dobbiamo essere troppo preoccupati di una presa del potere da parte delle forze islamiste. Non solo queste sono divise internamente e, nei paesi dove agiscono, subiscono pressioni da più parti, ma devono anche imparare come governare. Nei paesi dove sono in corso le rivolte, alcuni soggetti cercheranno di forzare la mano su alcuni aspetti specifici dell’agenda dei nuovi governi, ma non si governa un paese proibendo il consumo di bevande alcoliche o imponendo alle donne di indossare il velo. La primavera araba è una rivolta post-islamista. Diversa dalle rivolte che avevamo visto trenta o quaranta anni fa.”

Questo il pensiero espresso nel corso del Festival di “Internazionale” (a Ferrara dal 31 settembre al 2 ottobre) da Olivier Roy, orientalista e professore all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole, presso la Cattedra Mediterranea al Robert Schuman Centre for Advanced Studies.

I leader spodestati o comunque messi alle strette dalla primavera araba sono tutte figure legate al periodo post-coloniale. Siamo arrivati al tramonto definitivo dell’ordine post-coloniale?

Certamente. L’ordine post-coloniale si basava sull’idea di popolazioni unite guidate da leader carismatici che combattevano contro i progetti “sionisti” e occidentali nella regione. La figura di un leader carismatico era centrale per questi sistemi. Pur escludendo le monarchie, questo è successo con Bourguiba, Nasser, Ben Ali, Mubarak e Assad. Si tratta di leader che tendevano ad affermare che tutti i problemi nazionali provenivano dall’esterno. Questi regimi pan-arabisti e nazionalisti erano in crisi da anni. La corruzione interna ha continuato a crescere e con essa anche il divario tra ricchi e poveri. I momenti più critici sono stati quelli in cui vi era un passaggio di potere tra un leader e il possibile successore. Anche la politica estera che portavano avanti risentiva di evidenti limiti: non vi era molto di più oltre all’opposizione nei confronti di Israele.    

In un articolo pubblicato su “Le Monde” il 14 febbraio scorso, cioè tre giorni dopo la caduta di Mubarak, lei ha definito quelle in corso “Rivoluzioni post-islamiste”. Cosa intende con questa definizione?

Le sommosse con radice islamista sono quelle che si sono avute negli anni Setanta e Ottanta, quando c’erano movimenti islamici che volevano realizzare un vero stato islamico con caratteristiche ben precise. Quando questi movimenti hanno vinto, come in Iran, non sono stati in grado di garantire giustizia sociale e ciò ha reso i regimi estremamente impopolari. L’idea di adottare la shari’a non ha funzionato neanche in Arabia Saudita e in Afghanistan. Contemporaneamente, nei paesi dove i movimenti islamisti non sono riusciti ad imporsi, tali forze sono passate all’opposizione, e in alcuni casi si sono accorte che l’idea di uno stato islamico non era più vincente. Un esempio di questo processo è quanto accaduto in Turchia, dove l’attuale presidente Racep Tayyp Erdogan ha creato un partito che non aveva un’agenda islamista. La vittoria di Erdogan è servita da lezione agli islamisti marocchini, tunisini e giordani. Forse meno ai Fratelli musulmani in Egitto. Quanti sono scesi in strada in questi mesi non hanno fatto dell’Islam un loro slogan, e non sono stati mossi da ideologie precise, come il pan-arabismo.

La situazione siriana continua a complicarsi. Quali sono le conseguenze della destabilizzazione di questo paese nella regione?

La Siria è un paese centrale e quanto vi sta avvenendo ha conseguenze su molti paesi. Gli eventi in corso rappresentano una sconfitta per l’Iran, visto che il governo di Damasco era il suo unico alleato nella regione. Sono una minaccia per Israele che, pur non amando la famiglia degli Assad, vi ha intrattenuto rapporti che garantivano l’attuazione di alcune regole di gioco nella regione. Ora queste regole sono saltate e gli israeliani temono le conseguenze di un vuoto di potere ai propri confini. A perderci è anche Hezbollah, che ha bisogno dell’alleanza con la Siria. Per la Turchia quanto sta accadendo in Siria rappresenta invece un’opportunità perché questo paese potrà ora diventare un nuovo attore nella regione. I sauditi, infine, sono schizofrenici e divisi al riguardo: da una parte non vogliono che alcun regime nella regione crolli, ma dall’altra non amano la famiglia degli Assad.

Alcuni accademici hanno definito la guerra in Libia come una nuova guerra coloniale; lei concorda?

Non pienamente. Secondo me gli attori libici sono autonomi e non seguiranno ciecamente il volere dell’Occidente. Quella che abbiamo visto è stata un’alleanza tra libici e forze NATO dettata dalle circostanze del momento, ma i libici non agiscono come agenti della NATO. Seguiranno la loro strada.

Quali sono le conseguenze delle rivoluzioni arabe per le seconde generazioni di musulmani che vivono in Occidente?

Le rivolte hanno dimostrato una volta per tutte che le teorie secondo cui l’Islam non era compatibile con la democrazia sono false. Ora i musulmani che vivono in Occidente possono mostrare che non vi è alcuna incompatibilità tra il loro mondo di provenienza e quello in cui vivono. Quanto accaduto nella regione araba ha anche indebolito la posizione di quei partiti o movimenti che, all’interno di ogni paese europeo, hanno descritto i musulmani come incapaci di vivere in contesti democratici. È per questo che alcuni in Occidente tendono perfino a negare l’esistenza di una vera “primavera araba”.

Dopo le rivolte nelle piazza arabe stiamo vedendo insorgere gli indignados europei e nelle ultime settimane si sono tenuti anche sit in di protesta anche davanti a Wall Street. Ci sono punti di contatto tra tutte queste sommosse?

In termini generali, non possiamo affermare che ci siano punti di contatto politici. Ciononostante dobbiamo riconoscere l’esistenza di una “narrativa” di protesta che accomuna i diversi attori che si agitano in diverse parti del mondo. Si tratta di nuove forme di protesta che funzionano perché sono visibili, pacifiche. I protagonisti sono movimenti giovani, non radicali, che utilizzano anche la satira come arma per sbeffeggiare i governanti che vogliono delegittimare. Possiamo forse dire che è in corso una universalizzazione del paradigma della protesta.