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India versus Pakistan: la dimensione regionale del conflitto afgano

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La vicenda “Wikileaks” e il viaggio di David Cameron in India – con le sue ripercussioni negative sui rapporti tra Gran Bretagna e Pakistan – hanno riportato in primo piano la complessa dimensione regionale del conflitto afgano. E’ infatti evidente che la tensione indo-pakistana continua a proiettarsi sulla situazione dell’Afghanistan, complicando enormemente sia la conduzione della guerra che le possibilità di una composizione politica.

Tra i conflitti che la Comunità Internazionale ha ricevuto in eredità dagli imperi coloniali, quello tra India e Pakistan appare come una patologia cronica: fasi acute si alternano a fasi di quiescenza ma una soluzione rimane, a più di sessanta anni dal suo inizio, molto lontana. Il conflitto fra questi due Paesi, conseguenza della spartizione del 1947, li ha spinti al confronto militare per ben tre volte, nel 1947-48, nel ’65 e nel ’71. A queste guerre si aggiunse quello che comunemente è considerato il quarto conflitto indo-pakistano, la Guerra di Kargil del 1999, che vide impegnato l’esercito indiano nel respingere le infiltrazioni di gruppi paramilitari pachistani attraverso la Line of Control (il confine de facto che divide il Kashmir tra i possedimenti pachistani dell’Azad Kashmir e delle Northern Areas e quelli indiani dello Jammu & Kashmir). Tradizionalmente, infatti, la disputa tra i due Stati è stata giocata intorno al controllo di quest’area, strategicamente rilevante per l’utilizzazione delle risorse idriche himalayane.     

Sebbene, nel 2001, la crisi sembrasse riaccendersi in seguito ad un attentato terroristico al parlamento indiano, in cui Nuova Delhi scorse il coinvolgimento dell’intelligence pachistana, si assistette, durante il 2003, alla ripresa dei rapporti diplomatici e alla dichiarazione del cessate il fuoco lungo la Line of Control. La distensione sembrava finalmente avviata quando, nel 2004, furono inaugurati i negoziati di pace. Tuttavia, dopo quattro anni, e in assenza di qualsiasi risultato concreto, la situazione precipitò nuovamente: nel luglio 2008, un attentato terroristico all’ambasciata indiana a Kabul provocò 58 morti mentre, a novembre, due terribili attacchi a Mumbai causarono la morte di 174 persone e il ferimento di altre 300. In entrambi i casi, Nuova Delhi dimostrò la responsabilità dell’organizzazione terroristica Lashkar-e-Taiba, il coinvolgimento dell’intelligence pachistana e chiese l’estradizione degli indiziati. Di fronte al diniego di Islamabad, il dialogo di pace sfumò rapidamente e venne archiviato l’8 ottobre 2009, quando l’ennesimo attentato all’ambasciata indiana di Kabul fu di nuovo ricondotto al terrorismo di matrice pachistana. 

 Neanche la recente visita del ministro degli esteri indiano Krishna, svoltasi ad Islamabad dal 14 al 17 luglio, sembra aver prodotto risultati confortanti. In realtà, l’incontro con il suo omologo pachistano Qureshi sembrava già compromesso dalle dichiarazioni del ministro degli interni indiano Pillai che, il giorno precedente alla visita stessa, imputava gli attentati di Mumbai a Lashkar-e-Taiba, chiedeva l’incarcerazione del suo capo Hafiz Saeed e rimarcava il coinvolgimento dell’ISI. La questione degli attacchi di Mumbai pone, infatti, l’ostacolo più serio allo sviluppo dei negoziati e aumenta la diffidenza tra le parti, che continuano a rivolgersi accuse reciproche: mentre l’India denuncia lo scarso impegno pachistano nel contrasto alle infiltrazioni lungo il confine del Kashmir, il Pakistan lamenta il sostegno indiano ai TTP (Tehrik-i-Taliban Pakistan) in Baluchistan.

 Nonostante le critiche seguite al fallimento dell’incontro, non sembra tuttavia che il dialogo verrà interrotto. Permangono, però, seri dubbi sull’utilità di tali incontri visto il sostanziale disinteresse delle due parti alla riappacificazione. Infatti, come molti hanno recentemente notato, oltre al tradizionale contenzioso territoriale per il Kashmir, i contrasti tra India e Pakistan riguardano anche la presenza dei due Paesi in Afghanistan, influenzando le sorti del conflitto.

 É innegabile l’attivismo dell’India che, fornendo un’assistenza alla ricostruzione pari ad un valore di 662 milioni di dollari, sta evidentemente tentando di accrescere la sua influenza economica in Afghanistan. Nuova Delhi sta sostenendo anche importanti interventi infrastrutturali: nel 2007 ha costruito un ponte tra Afghanistan e Tagikistan e nel 2008 una strada che collega la provincia afgana di Nimroz al porto iraniano di Chan Bahar. Islamabad ha visto con grande preoccupazione la realizzazione di queste opere che potrebbero annullare l’importanza strategica della rotta che dal porto di Karachi passando per il pericoloso Khyber Pass – unica via di accesso all’Afghanistan attraverso l’Hindukush – giunge fino a Kabul. Questa importante arteria di comunicazione ha consentito il rifornimento delle truppe NATO nel corso della campagna afgana e ha storicamente reso il commercio dell’Afghanistan dipendente dalle infrastrutture pachistane.

Ma non finisce qui. L’India ha aperto quattro consolati regionali (ben 4000 cittadini indiani risiedono in Afghanistan) e si è offerta di addestrare le forze di sicurezza afgane. É inoltre noto a tutti che, sin dal 2001, la presenza a Kabul dell’intelligence indiana (RAW – Research and Analysis Wing), si è rivelata molto utile in chiave anti-talebana, favorendo i contatti tra Washington e l’Alleanza del Nord.  

La presenza indiana in Afghanistan è intollerabile per il Pakistan. É opinione diffusa, soprattutto tra i vertici dell’esercito, che se questa dovesse consolidarsi, Islamabad verrebbe privata della cosiddetta “profondità strategica” che il suo vicino occidentale gli assicura. Tale concetto, ereditato dalla teoria militare degli anni ’60, prevede la disponibilità di un territorio amico in cui poter riorganizzare un contrattacco in caso di sfondamento indiano. La paura di Islamabad, infatti, è quella di dover fronteggiare una two-front situation, che lo intrappolerebbe come in una morsa. E solo un governo amico a Kabul può evitare una simile eventualità.

Allora è proprio in questo senso che va letta l’ultima mossa del Generale Kayani, il capo dell’esercito pachistano, che, a più riprese, insieme al direttore dell’ISI Shuja Pasha, ha fatto visita a Karzai proponendogli di includere nell’Afghanistan di domani i talebani della Rete di Haqqani. Con questa forzatura, Islamabad non tenta soltanto di condizionare le sorti del conflitto ma, implicitamente, rivendica un ruolo (forse da protagonista) nella sua soluzione. Giocando la “carta Haqqani”, infatti, il Generale utilizza quello che tempo fa egli stesso definì uno strategic asset per il Pakistan e, contemporaneamente, chiarisce il motivo per cui l’offensiva dei suoi uomini contro Haqqani, nel North Waziristan, non è mai avvenuta: si trattava di preservare un’indispensabile risorsa futura. Anche a costo di scontentare Washington. 

Certo non è la prima volta che l’esercito pachistano condiziona l’andamento della guerra in Afghanistan, lanciando simili avvertimenti. Per esempio, l’arresto del mullar Baradar, il braccio destro di Omar, avvenuto lo scorso febbraio a Karachi ad opera dell’ISI, ricordava a tutti che Islamabad non avrebbe accettato nessuna ipotesi di dialogo tra i Talebani e soggetti terzi senza la sua previa autorizzazione. Baradar aveva infatti partecipato ad una serie di colloqui segreti con Karzai, organizzati durante il 2009 dall’Arabia Saudita. Il suo arresto è sembrato più un gesto di ritorsione contro i Talebani che un contributo alla causa americana. 

L’intelligence pachistana ha sempre preteso l’esclusività del rapporto con queste organizzazioni terroristiche, impedendo loro qualsiasi contatto con altri soggetti. Era così ai tempi delle guerriglia antisovietica ed è così per la war on terror. Ecco perchè, alla fine del 2003, nel giro di un paio d’anni dall’inizio delle ostilità, circa 600 combattenti di al Qaeda furono consegnati agli americani mentre rimanevano pressoché inalterati sia il fronte talebano che le reti terroristiche operanti in Kashmir (Lashkar-e-Taiba, Jaish-i-Muhammad e Harkat ul-Mujahidin). 

La selezione e la differenziazione degli obiettivi pachistani rispetto a quelli degli Occidentali hanno portato enormi benefici a Islamabad, che, garantendo un livello di cooperazione minimo, ha ricevuto in cambio ingenti aiuti finanziari e ha preservato lo strumento essenziale per il conseguimento della sua politica anti-indiana, i jihadisti.

Nonostante oggi si manifesti con sempre più evidenza un problema di sicurezza interna, a causa dei ripetuti tentativi dei Talebani pakistani di ostacolare la politica filoamericana di Zardari, gli ambienti militari continuano ad ostentare sicurezza nella gestione e nell’utilizzo dei combattenti islamici e rimangono testardamente contrari a qualsiasi apertura nei confronti dell’India.

Bisognerà aspettare gli esiti dal presunto accordo tra Karzai e i Talebani di Haqqani per capire chi abbia ragione. Nel caso vada in porto, infatti, la mediazione di Kayani rappresenterebbe una schiacciante sconfitta per l’India. Nel frattempo, un gesto a sorpresa da parte di Karzai sembra giocare a favore del Pakistan: alla fine di giugno, il presidente afgano ha accettato le dimissioni di Amrullah Saleh, direttore dei servizi segreti e acerrimo nemico dei Talebani e dei loro sostenitori all’interno dell’ISI.  

Tutto questo sta avvenendo senza il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti e potrebbe incidere sulla futura sistemazione dell’Afghanistan, rischiando di vanificare l’impegno delle truppe americane e dei loro alleati NATO. La speranza è che, al di là della retorica sterile della Conferenza di Kabul, Washington si renda davvero conto della necessità di inquadrare il conflitto afgano nella sua dimensione regionale.