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Imparando dalla crisi greca

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Più che la nottola di Minerva, la moneta da un Euro di conio greco dovrebbe riprodurre il pennuto descritto da Bertrand Russell ne “I problemi della filosofia”: quel gallinaceo che, vedendo arrivare tutte le mattine il suo padrone con la razione giornaliera di miglio, ritiene che l’evento si ripeterà all’infinito. Fino a quando il padrone non si reca nel pollaio per tirargli il collo, dimostrando inequivocabilmente che “un’idea meno primitiva dell’uniformità della natura sarebbe stata utile all’animale”.

Per quasi dieci anni, i Governi europei si sono comportati grosso modo come il pennuto. Hanno pensato che i successi fin qui maturati mettessero l’Unione Economica e Monetaria (UEM) al riparo dal suo nemico più insidioso: l’insorgere di gravi squilibri economici interni. Fino a quando la crisi finanziaria greca non si è incaricata di smentirli.
Eppure, era noto da tempo che una serie di fattori di rischio rendevano tutt’altro che improbabile il manifestarsi di gravi “imbalances” all’interno della UEM. Il principale era rappresentato dalle perduranti differenze strutturali fra le economie degli Stati membri. Uno degli articoli di fede del sistema di Maastricht era  che queste differenze si sarebbero stemperate nel tempo, per effetto del “vincolo esterno” posto dall’euro e delle dinamiche “virtuose” innescate dall’ integrazione economica. I vari strumenti di “open coordination” lanciati negli ultimi anni, a cominciare dalla “Strategia di Lisbona” avrebbero dovuto agevolare il processo. Tuttavia, il perdurante “gap” di competitività fra Stati membri – basti pensare al surplus commerciale tedesco e ai differenziali nei tassi di inflazione – ha dimostrato come il compito fosse tutt’altro che agevole.

A questo rischio strutturale andava poi aggiunto quello di uno sfasamento dei cicli economici e soprattutto il pericolo di cosiddetti “shock asimmetrici”, ovvero gli shock economici importati dall’esterno (ad esempio, un aumento del costo delle materie prime, il crollo di un mercato, una grave crisi finanziaria) che colpiscano in maniera particolarmente severa alcuni Stati membri lasciando relativamente indenni gli altri.

Il problema, è che la UEM non dispone di strumenti adeguati per far fronte a questi squilibri. Non può usare le politiche economiche centralizzate, perché  far ciò equivarrebbe a somministrare a tutti la stessa “medicina”, con pesanti controindicazioni per gli Stati “sani”. Non può fare affidamento sui meccanismi automatici suggeriti dalla teoria economica – in primis la mobilità della forza lavoro e la flessibilità dei prezzi e dei salari – perché il suo mercato del lavoro è ancora ben lontano dall’essere integrato e perché prezzi e salari non sono flessibili. E non può fare affidamento neppure sull’unico strumento che, per esclusione, le rimarrebbe per rispondere a gravi squilibri interni: i trasferimenti fiscali verso le aree in crisi. Fin dai tempi di Maastricht, infatti, l’ipotesi di una “solidarietà macroeconomica” nei confronti degli Stati membri in difficoltà  è sempre stata osteggiata dagli Stati che contribuiscono maggiormente al bilancio comunitario. Non a caso, i Trattati prevedono, come regola generale, il divieto di intervenire a sostegno di uno Stato membro in difficoltà (la c.d. “no bail out clause”) e solo come ultima ratio contemplano la possibilità di concedere assistenza finanziaria ad uno Stato membro “seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo” (art. 122). Al limite quindi, i sacri testi consentono di venire in soccorso di uno Stato membro, ma a condizione che sia “vittima innocente” delle avversità economiche e soltanto nei limiti del bilancio dell’Unione. Una possibilità sostanzialmente residuale, considerata l’esiguità del budget dell’Unione (poco più dell’1% del PIL europeo).

Il che ci porta al tormentato dibattito di questi giorni. La crisi greca si materializza in un periodo in cui i cicli economici sono sincronizzati al ribasso ed in cui una crisi finanziaria importata dall’esterno produce effetti diversi in diverse aree della Unione Europea amplificando enormemente il gap strutturale fra economie più competitive e meno competitive dell’Unione. Insomma, una sorta di “perfect storm” economico-finanziaria causata dal convergere dei vari “fattori di rischio” cui abbiamo appena accennato.

Gli eventi sono precipitati quando i Soloni delle agenzie di rating (gli stessi che non avevano neanche subodorato il rischio dei “subprime” alla base della crisi finanziaria dell’anno scorso) hanno deciso di “declassare” il debito pubblico di Atene. La reazione dei mercati è stata immediata, portando ad un aumento dello “spread” fra i tassi di interesse greci e quelli degli alti partners della UE. Per giunta, si è scoperto proprio in quei giorni che la Grecia aveva pesantemente “imbellettato” i suoi conti e che il deficit di bilancio, esploso al 12% del PIL, era molto superiore a quanto inizialmente annunciato. Abbastanza per far materializzare il fantasma di un default della Grecia.

Gli europei sono stati per diverse settimane combattuti sulla linea da tenere: da un lato  vi era il desiderio di sanzionare le “furbizie contabili” greche; dall’altro, la consapevolezza delle possibili ripercussioni di un default sulla moneta unica. E se l’incendio si propagasse ad altri Stati membri? Se la credibilità della UEM venisse definitivamente minata?

Al Consiglio ECOFIN di metà marzo si è optato per una posizione intermedia. Alla Grecia è stato chiesto di presentare delle misure di risanamento draconiane, con una riduzione della spesa pubblica dell’ordine del 4% del PIL. In cambio, i Ministri finanziari hanno annunciato che l’Europa sarebbe venuta  in aiuto di Atene “se necessario”. Il quanto e il come dell’aiuto è stato però lasciato nell’indeterminatezza.

La speranza inconfessata era che l’effetto annuncio bastasse, da solo, a convincere i mercati, rendendo superfluo l’intervento europeo. Ma è stato ben presto evidente che, con una parte cospicua del debito greco in scadenza, era necessario fornire  garanzie più concrete. Per farlo, occorreva però vincere le resistenze della Germania. Sondaggi (e giornali tedeschi) alla mano, la Cancelliera Merkel ha continuato per giorni a sostenere la linea del “non intervento”, suggerendo di affidare al Fondo Monetario Internazionale l’onere del sostegno di bilancio alla Grecia. Un’ipotesi osteggiata, non senza buone ragioni, da altri Stati membri e dalla stessa Banca Centrale europea, che vi vedrebbero un grave smacco per la credibilità dell’Euro e per le ambizioni dell’Unione.

La soluzione è stata infine raggiunta, come avviene ormai con sempre maggiore frequenza, al di fuori dei canali istituzionali UE, nel vertice franco-tedesco che ha preceduto il Consiglio Europeo del 25-26 marzo. Il Presidente Sarkozy è riuscito a vincere le resistenze della Cancelliera Merkel. In cambio, però, ha accettato che l’aiuto alla Grecia avvenga secondo modalità gradite alla Germania: l’aiuto europeo si affiancherà a quello del Fondo Monetario Internazionale, anche se costituirà una “quota maggioritaria” del pacchetto globale; sarà erogato soltanto come “ultima ratio” qualora la Grecia non riesca a rifinanziare il suo debito attraverso il mercato e verrà fornito dagli Stati membri della zona Euro attraverso “crediti bilaterali coordinati”, secondo una chiave di ripartizione mutuata dalla partecipazione degli Stati al capitale della BCE.

E’ interessante notare che questa soluzione è stata registrata all’interno di un comunicato dei Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri della zona euro, a dimostrazione della vitalità di questo foro di dialogo convocato per la prima volta dalla presidenza francese del 2009. Le conclusioni del Consiglio Europeo, invece, riescono a non menzionare neanche una volta la parola “Grecia”, e si limitano a prevedere l’istituzione (richiesta dall’Eurogruppo) di una “task force composta di rappresentanti degli Stati membri, della presidenza di turno e della BCE incaricata di presentare al Consiglio, entro la fine dell’anno, le misure necessarie per conseguire l’obiettivo di un quadro perfezionato di soluzione delle crisi e una migliore disciplina di bilancio, esplorando tutte le opzioni per rafforzare il quadro giuridico”.

Perché ci vorrebbe comunque un Fondo Monetario europeo
E’ difficile dare un giudizio univoco del pacchetto definito a Bruxelles. Non c’è dubbio che esso allontana, per il momento, lo spettro di un default, ma lo fa attraverso una soluzione solo in parte europea e non particolarmente generosa. Solo in parte europea perché affida, in realtà, la guida dell’operazione al Fondo Monetario Internazionale. Non particolarmente generosa perché limita l’intervento europeo all’eventualità che Atene non riesca a piazzare autonomamente i propri titoli sul mercato. Forse si sarebbe potuto fare qualcosa di più per alleviare il peso della manovra finanziaria che è stata imposta alla Grecia. Una manovra sulla cui sostenibilità reale resta, a dire il vero, qualche dubbio.

All’attivo del Vertice vi è comunque l’avvio di una riflessione più approfondita sugli strumenti per reagire a situazioni di crisi nella zona euro. La soluzione una tantum individuata in questo frangente costituisce già di per sé un modello. Basterebbe ribadire che, in caso di necessità, gli Stati membri possono decidere, all’unanimità, di intervenire a sostegno di uno Stato in difficoltà attraverso crediti bilaterali, secondo una chiave di ripartizione analoga a quella della partecipazione al capitale della BCE.

Si potrebbe però pensare di andare anche oltre, costituendo un vero e proprio “Fondo Monetario Europeo”, come è stato proposto da più parti in questi mesi.

In una versione “minimalista”, l’FME si limiterebbe a dare una veste più istituzionale, ed esclusivamente europea, al meccanismo di solidarietà budgetaria definito a Bruxelles, individuando gli strumenti e le modalità di intervento che consentano di gestire il rischio di default di uno stato membro della zona Euro. In questo scenario, l’FME rappresenterebbe il naturale completamento dell’attuale sistema di governance dell’economia europea, tutto “imperniato” sulla politica monetaria e sul patto di stabilità (con tanto di enfasi sui meccanismi “sanzionatori” per i reprobi).

In uno scenario più ambizioso al Fondo potrebbe essere assegnato anche il compito di finanziare iniziative di sviluppo, magari attraverso l’emissione di titoli del debito pubblico europeo (i cosiddetti “eurobond”, per chiarirci). In questo scenario, l’FME rappresenterebbe un passo molto importante verso la creazione di un vero e proprio “governo economico europeo”. Verso il passaggio dal Governo delle regole al Governo (anche) delle scelte.

In ogni caso, tanto nella versione minimalista di vestale della disciplina di bilancio, quanto in quella più ambiziosa di strumento proattivo di governance economica, la creazione di un FME avrebbe un duplice merito. In primo luogo, quello di colmare in modo realistico le principali lacune del sistema, fornendo uno strumento autenticamente europeo per far fronte alle situazioni di crisi. In secondo luogo, quello di rivitalizzare la dinamica integrativa all’interno dell’Unione. Per istituirlo occorrerebbe infatti un atto di grande coraggio politico. Lo stesso coraggio che aveva dettato la linea della Germania di Kohl all’indomani della riunificazione ed alla vigilia del Trattato di Maastricht. Saprà l’allieva Merkel mostrare lo stesso coraggio e la stessa lungimiranza del suo maestro?  Sembra difficile.

E’ comunque fin d’ora escluso che, nel breve termine, l’FME possa essere istituito modificando il Trattato di Lisbona. La ratifica è troppo fresca ed è stata troppo laboriosa per pensare di poter riaprire i giochi. Resta quindi la possibilità di stipulare un accordo intergovernativo fra  gli Stati membri interessati o, in alternativa, di sfruttare lo strumento delle cooperazioni rinforzate previste dai Trattati. In entrambi i casi, la creazione di un FME riporterebbe in auge il discorso della “Europa a due velocità” che rappresenta – è sempre più evidente, nell’Europa a 27 – l’unica strada per assicurare una “integrazione sempre più stretta fra i popoli europei”. O almeno fra quelli che lo desiderano. I leader continentali sapranno vedere questa opportunità? In questa fase sembra poco probabile. Ma se avvenisse, la crisi greca potrebbe rivelarsi un inatteso momento di rilancio, una sorta di catarsi, per il progetto politico europeo.