Il referendum popolare scozzese, che si è concluso con la vittoria del “no”, è solo una prima verifica di questo tipo sul futuro politico di una parte d’Europa. Ve ne sono altre in calendario in questo periodo di straordinario confronto tra il dinamismo di più radicali spinte, aspirazioni, visioni, e i tentativi di resistenza o aggiornamento dello status quo. La Scozia resterà dunque all’interno del Regno Unito. Ma l’esito del voto non può nascondere la rilevanza di alcune tendenze di fondo, riscontrabili nello specifico caso scozzese, ma caratteristiche ormai dell’opinione pubblica di tutto il continente.
Si tratta di tendenze che possiamo definire centrifughe, e che però solo in qualche caso assumono la forma del separatismo: il “centro” da cui ci si allontana non è (solo) la capitale del proprio paese, ma in generale l’arena politica tradizionale. Già presenti in maniera latente o intermittente da qualche decennio, e intese in passato come risposta alle ansie e alle paure indotte dalla globalizzazione, tali tendenze si sono rafforzate durante la crisi economica. Nuove formazioni e nuovi leader apparsi negli ultimi anni si stanno rivelando capaci di interpretare la diffusa sfiducia nelle classi dirigenti e la ricerca di rinnovati modelli di partecipazione e identità, e di trasformarli in stabile consenso elettorale.
Ogni periodo di congiuntura negativa rende l’opinione pubblica meno tollerante nei confronti del sistema economico e politico in cui si trova a vivere, e delle sue storture. Non c’è dubbio che questo sia uno dei motivi alla base dell’intensificarsi delle spinte separatiste un po’ dovunque in Europa: non solo l’indipendentismo è cresciuto esponenzialmente in Scozia, Catalogna e Fiandre, ma guadagna consensi anche in altre aree dove tradizionalmente era meno radicato, come il Paese Basco, la Corsica, la Baviera o parti del Nord Italia.
Tuttavia, sarebbe un errore circoscrivere questo revival localista a una dimensione regionale. In effetti, più sorprendentemente, il fenomeno ha finito per assumere in diversi casi i caratteri di un vero e proprio nazionalismo “nazionale”. Alla base di questo cambiamento vi è certamente la crisi economica, il rafforzamento delle diseguaglianze che ne è conseguito, la perdita di credibilità della politica tradizionale; ma vi sono anche cause storiche di più lungo periodo, cioè l’inadeguatezza dei singoli stati a fare fronte alle tendenze economiche globali, e il tramonto delle fratture politiche classiche su cui i partiti europei si erano confrontati per decenni.
Ad accomunare i partiti regionalisti alle nuove forze nazionaliste non c’è tanto il contenuto dell’offerta politica – la proposta socialdemocratica dello Scottish National Party (SNP) è certo in contrasto con il presunto liberalismo, di fatto protezionista, dello United Kingdom Independence Party (UKIP). Piuttosto, si riscontra una simile capacità (e lo stesso successo) nello spostare i temi del dibattito pubblico sull’asse della contrapposizione tra periferia e centro. Ovviamente, stando alla retorica o alla narrativa di tali forze politiche, si tratta di una periferia identificabile con una comunità nazionale maltrattata da un centro di potere lontano, inefficiente ed elitario.
Se, restando al caso britannico, non è difficile per l’SNP identificare questo potere nel parlamento inglese di Westminster e nei suoi screditati partiti, il nazionalismo “nazionale” dell’UKIP trae la sua ragione di essere – oltre che dalle cause elencate – dal conflitto che contrappone il centro decisionale sovranazionale dell’Unione Europea a Bruxelles con quello delle vecchie capitali di stato.
Regionalisti e nazionalisti, al contrario della maggior parte dei partiti tradizionali, hanno saputo trarre giovamento dalle ondate di “antipolitica” conseguenti alla crisi. Non è strano dunque che sia i partiti che chiedono maggiore autonomia territoriale, sia le forze politiche intenzionate a rivedere le relazioni del proprio stato con la UE, vogliano utilizzare lo strumento del referendum per regolare tali rapporti: il giudizio del popolo sovrano deve supplire all’incapacità della politica. Da ciò nasce la rivendicazione (compiuta) dell’SNP per la posizione della Scozia nel Regno Unito, ma anche quella dell’UKIP per la posizione del Regno Unito nell’Unione Europea, che ha spinto addirittura il premier inglese David Cameron ad adottarla come sua per tentare di contrastarne la forza. E referendum sull’appartenenza nazionale o alla UE sono nei programmi di simili forze politiche in tutta l’Europa occidentale e nordica.
Considerate le condizioni in cui si trova l’arena politica europea – la sfiducia nelle élite è alimentata dalla cattiva prova offerta da queste nel combattere la crisi e nel diminuire le diseguaglianze – per regionalisti e nazionalisti si tratta per ora di una scommessa win-win, di un gioco a sicuro profitto politico.
La battaglia identitaria offre diversi vantaggi. Per cominciare, contribuisce a mobilitare un elettorato apatico da decenni: lo si vede nelle percentuali di iscritti al voto in Scozia, mai così alte da sessant’anni. Ma anche nell’aumento della partecipazione elettorale in Catalogna da quando l’indipendentismo ha egemonizzato la politica locale, nell’analisi dei flussi elettorali dell’UKIP come del Front National in Francia, e in generale di tutte quelle forze politiche che utilizzano massicciamente il richiamo al popolo e alla democrazia diretta nel proprio discorso. Il punto centrale è che gli astensionisti tornano a votarle.
Queste forze godono dunque di un importante aumento di consensi. Contrastare una comunicazione politica basata sul “noi” contro “loro” è difficile di per se, e lo è ancor di più se questo “noi” non si basa più su appartenenze sbiadite come una classe sociale o una religione, ma invece sul sentimento ancora forte di identità culturale nazionale. Dunque, il leader dell’UKIP Nigel Farage si autodefinisce continuamente come the voice of England – attributo che nessun laburista o conservatore può permettersi – mentre se si pensa a un politico scozzese viene subito alla mente Alex Salmond, e non i più celebri Tony Blair o Gordon Brown.
Infine, anche nel caso di una sconfitta referendaria, i partiti regionalisti e nazionalisti potranno contare sui vantaggi derivanti dall’aver spostato l’asse della politica sul tema a loro più congeniale. Parte del diffuso elettorato laburista in Scozia e parte di quello conservatore nel resto del Regno Unito si è già spostato verso l’SNP e l’UKIP, e ha spinto i propri partiti di riferimento a seguirlo – di qui la recente proposta federalista dei laburisti (per un federalismo britannico) e la svolta euroscettica dei conservatori. È chiaro che nel prossimo futuro la devolution di poteri alla Scozia e l’appartenenza all’Unione Europea continueranno a essere temi centrali nel Regno Unito, ben oltre la loro effettiva portata sulla vita quotidiana delle persone.
Si fatica a immaginare gli effetti di una tale evoluzione sui labili equilibri dell’Unione Europea. Da un lato, si potrebbe pensare che le forze regionaliste si accontenterebbero di una maggiore autonomia che permetta loro di governare il proprio territorio come una piccola Baviera – un sistema amministrativo che li ancori alla gestione del potere locale per un periodo abbastanza lungo. Dall’altro, non bisogna però trascurare gli effetti che un indiscriminato aumento di “regioni autonome” avrebbe sull’architettura istituzionale europea, già instabile e frammentata. Architettura che potrebbe addirittura non sopravvivere all’affermazione definitiva delle forze nazionaliste nei principali stati. Bruxelles ha finora cercato di ignorare il più possibile gli entusiasmi “localisti”. Forse è proprio da lì, invece, che si dovrebbe cominciare a discutere su una più soddisfacente forma istituzionale dell’Unione Europea.