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Il voto olandese di settembre: quando la crisi colpisce gli stati virtuosi

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La crisi economica che attanaglia l’Europa non ha modificato solo la composizione e il colore dei governi nelle capitali del debito: anche i cittadini dei Paesi Bassi – uno dei membri dell’UE più fedeli alla linea tedesca del rigore – saranno chiamati alle urne in settembre per rinnovare il parlamento. Il premier liberale Mark Rutte ha perso il sostegno del suo alleato esterno Geert Wilders su un piano di tagli per circa 15 miliardi di euro, necessario per riportare l’indebitamento del paese sotto la soglia del 3%.

L’Olanda, uno dei pochi paesi dell’Unione il cui bilancio ancora gode della tripla A da parte delle agenzie di rating – benché recentemente Moody’s ne abbia giudicato “negative” le prospettive – vive da qualche tempo una situazione di “stabile instabilità” politica. La crisi di governo di questa primavera è la quinta negli ultimi dieci anni, anche se le forze di centrodestra riescono a mantenere il controllo dell’esecutivo dal 2002. Rutte ha ottenuto la poltrona di primo ministro dopo quattro mesi di negoziati successivi alle elezioni politiche del giugno del 2010.

Questa tornata elettorale ha visto il clamoroso successo del Partito per la Libertà (PVV) di Geert Wilders, che quasi triplica i suoi voti rispetto a quattro anni prima trasformandosi, con il 15,5%, nella terza forza politica del paese: Wilders, convinto della necessità di limitare fortemente l’immigrazione a partire da quella di origine musulmana, raccoglie il più grande successo per una lista estremista dal 2002. Solo la Lista Pim Fortuyn aveva fatto meglio, in occasione delle elezioni tenutesi una settimana dopo l’uccisione del leader da parte di un attivista di estrema sinistra.

L’eventuale partecipazione del PVV è stato il nodo attorno a cui si sono svolti i negoziati per la formazione del governo. Dato che i tre partiti liberal-conservatori non raggiungevano insieme una somma sufficiente di seggi, e di fronte all’indisponibilità delle forze di sinistra a collaborare a un esecutivo di grande coalizione (preferibile, per questi partiti, costringere liberali e conservatori a un’alleanza con la destra estrema), il governo di minoranza finalmente nominato poggiava sulla partecipazione dei cristianodemocratici e sull’appoggio esterno del PVV, da concedere su una serie di punti a discrezione. Tuttavia, l’influenza di Wilders sull’esecutivo è stata più limitata di quanto si credesse o temesse: una legge più restrittiva sull’immigrazione, e la proibizione del burqa nei luoghi pubblici. Un po’ poco, per l’alfiere della crociata anti-Islam.

L’immigrazione (nel paese più di un abitante su cinque è di origine straniera) è stata per lungo tempo uno dei temi più delicati della politica olandese. Fino all’inizio degli anni Novanta, quando partiti xenofobi di tipo classico si andavano diffondendo altrove in Europa, nei Paesi Bassi il sostegno alle forze politiche che chiedevano l’espulsione degli stranieri o la chiusura delle frontiere rimaneva limitatissimo. La parabola politica di Pim Fortuyn cambia invece la situazione: già membro di diversi partiti di sinistra, straordinario comunicatore, fonda un partito personale a fine 2001; poco dopo, trionfa alle elezioni locali di Rotterdam strappando la città per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale ai laburisti. Dichiaratamente omosessuale, la sua critica all’immigrazione – soprattutto quella di origine islamica – respingeva nelle intenzioni i toni razzisti: il multiculturalismo andava evitato perché avrebbe distrutto la libertà di pensiero di cui si godeva nei Paesi Bassi. Dopo il suo assassinio, comunque, la Lista Pim Fortuyn ottenne sì un risultato record alle elezioni, ma si sgretolò rapidamente nei mesi successivi.

Tra coloro che hanno tentato di raccoglierne l’eredità, va considerata certamente Rita Verdonk, liberale, ministra dell’Integrazione dal 2003 al 2007. Iron Rita fu promotrice di leggi controverse come quella del test d’ingresso per gli immigrati (da cui è escluso chi proviene dai paesi occidentali), e protagonista di un dibattito parlamentare in cui contestava la regolarità della cittadinanza di una deputata del suo stesso partito, la somala Ayaan Hirsi Ali. Verdonk, sconfitta poi nella scalata alla leadership dei liberali proprio da Rutte, decise di fondare un suo proprio partito, con magrissimi risultati elettorali.

È dunque il PVV a raccogliere, in questo momento, i consensi di cui godeva Fortuyn. Il ritiro del sostegno al governo si spiega con due ragioni essenziali: da un lato, Wilders teme che la propria popolarità possa declinare, fiaccata dai magri risultati raggiunti con l’appoggio esterno all’esecutivo: una campagna elettorale dai toni populisti in un momento di crisi economica e instabilità politica potrebbe al contrario rafforzarla. Dall’altro, il leader del Partito per la Libertà vuole spostare l’asse del dibattito sui temi europei: sa bene che la difficile situazione economica del continente danneggia politicamente le forze conservatrici dei membri più rigorosi dell’UE. Anche in Olanda, come in Danimarca, in Finlandia e certamente in Germania, i partiti di governo scontano una perdita di consenso dovuta sia al permanere della crisi, sia alla contrarietà di parte dell’opinione pubblica all’aiuto finanziario ai paesi più indebitati.

La scelta di staccare la spina al governo proprio sul piano di tagli necessario per soddisfare i parametri di bilancio decisi a Bruxelles (che avrebbe comportato un aumento dell’Iva, l’aumento anticipato dell’età pensionabile a 66 anni e l’introduzione del ticket sanitario) è propedeutica alla scelta di Wilders di puntare sull’eurofobia come tema centrale della prossima elezione. L’avvicinamento – finora negato – alla destra di Marine Le Pen è palese: il ritorno al fiorino e l’uscita dal Fondo salva-stati sono tra le parole d’ordine principali della campagna del PVV.

A sinistra, è il Partito Socialista, più ortodosso e decisamente schierato in difesa dello stato sociale ad essere favorito sui colleghi laburisti, di tendenza liberale ed europeista – ma in caso di vittoria, le due forze dovranno probabilmente coalizzarsi al governo. Anche in questo caso, non si risparmiano critiche all’Unione Europea, “tenuta in scacco da 25.000 lobbisti, e schiava degli ultraliberali”: dunque, da rifondare su basi più sociali. È forte l’imbarazzo delle altre forze politiche, tradizionalmente abbastanza allineate a Bruxelles: temono che gli elettori possano penalizzare le loro soluzioni moderate, e oscillano tra una posizione genericamente in favore della “crescita” (laburisti) e la tentazione di irrigidire la linea rigorista (liberali).

Questa campagna elettorale sta dunque vivendo la stessa europeizzazione già avvenuta in occasione di altre elezioni del continente. Le forze politiche olandesi stanno collocandosi su una scala di posizioni che ricorda da vicino quelle assunte dai partiti francesi in occasione dell’ultima elezione presidenziale, e che si riprodurrà di certo nel lungo anno elettorale tedesco. Come in Francia, del resto, nel 2005 l’elettorato olandese aveva respinto la “costituzione europea” – con un nettissimo 61,2%.

Non sorprende quindi che, secondo un sondaggio, solo il 15% della cittadinanza vorrebbe un’Europa più forte: una percentuale che si avvicina a quelle registrate negli altri paesi del centro-nord dell’UE. È un dato che penalizza i partiti conservatori: la sinistra può interpretare la voglia di cambiamento sia nazionale che nella direzione degli affari europei – data la preminenza quasi generale delle forze di centrodestra negli ultimi dieci anni; l’estrema destra può attirare la parte crescente di elettorato che vede nella chiusura l’unica soluzione ai problemi economici e sociali che affliggono l’Europa e i singoli paesi. Il voto olandese del 12 settembre rifletterà questa tendenza.