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Il vertice NATO di Chicago: vecchie priorità e nuovi limiti di risorse

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Il recente vertice NATO è stato segnato dai messaggi politici che gli alleati hanno cercato di inviare, piuttosto che da decisioni realmente importanti. Questo vale per i principali punti nell’agenda del vertice di Chicago, tra cui spiccavano Afghanistan e smart defense, ma anche per temi quali la deterrenza nucleare e la difesa missilistica su cui si registrano alcune evoluzioni.

Quanto all’Afghanistan, il primo messaggio inviato, specialmente all’opinione pubblica americana ed europea, è che la missione ISAF terminerà completamente nel 2014. Il secondo messaggio, rivolto principalmente ai vari attori afgani e agli stati dell’Asia centrale, è che la NATO inizia da subito la pianificazione di una nuova (più limitata) missione in Afghanistan che subentri ad ISAF dopo il 2014. I due messaggi sono in parte contraddittori, visto che l’impegno NATO in Afghanistan sembrerebbe essere come un’araba fenice che rinasce dalle sue ceneri. In realtà i due messaggi sottolineano due aspetti complementari di un processo lungo e complicato – la cosiddetta transition – avviato nel 2009. Nell’ambito di questo processo, ogni 12-18 mesi è previsto che la sicurezza di una tranche di province afgane, e quindi di territorio e popolazione, passi sotto la responsabilità delle Afghan National Security Forces (ANSF), con il contestuale passaggio delle forze ISAF da un ruolo di combattimento attivo ad uno di assistenza. Con l’annuncio della terza tranche di province in transizione, dato dal presidente afgano Karzai la settimana precedente il summit, il 75% della popolazione afgana è ora coinvolta in questo processo – da concludersi entro il 2013, con un periodo-cuscinetto fino al 2014.

Quanto le forze di sicurezza afgane siano in grado di gestire la sicurezza, e di rispondere a violente ondate terroristiche come quella verificatasi nei mesi scorsi, è tutto da vedere. Tuttavia, a meno di un collasso radicale dell’autorità statuale afgana, è possibile che le ANSF siano in grado di assicurare nei prossimi anni un livello appena accettabile di sicurezza con il sostegno della NATO. Sostegno in termini di equipaggiamento, finanziamento e addestramento – anche delle forze speciali afgane – ma non di combattimento. Ecco perché il vertice di Chicago si è concentrato su due aspetti della pianificazione della fase post-2014: non solo le linee guida per la nuova missione post-ISAF, ma anche la definizione di massima del volume delle ANSF a regime (circa 230.000 militari afgani) e del relativo costo per la comunità internazionale – con un appello ai paesi donatori coinvolti nella conferenza di Bonn del 2011 a contribuire allo sforzo finanziario previsto per il prossimo decennio.

Alla luce di questa complessa transizione, il messaggio politico più evidente per l’opinione pubblica dei paesi NATO è il progressivo ritorno in patria dei militari alleati nei prossimi anni – già accelerato dai singoli paesi rispetto ai piani iniziali, anche in modo apparentemente scoordinato, sotto la pressione delle esigenze interne – e l’auspicata diminuzione dei caduti alleati in Afghanistan vista la riduzione progressiva delle operazioni di combattimento.

Sulla cosiddetta smart defense (essenzialmente il principio per cui l’efficienza della spesa militare aumenta se le risorse vengono impiegate per progetti comuni), il messaggio politico era se possibile ancora più arduo da inviare. Da un lato la crisi dei debiti pubblici in Europa ha spinto la quasi totalità degli alleati europei a ridurre in modo significativo i bilanci della difesa, con tagli anche a due cifre: i governi della NATO non sembrano in grado di esporre pubblicamente argomenti convincenti – che pure esistono – per spiegare la necessità di investire risorse nella difesa. Dall’altro, la cooperazione internazionale in fatto di procurement della difesa, in teoria volta a produrre e mantenere capacità militari in modo più efficiente ed economico, sconta dei limiti strutturali che da decenni ne impediscono o rallentano l’attuazione. Di conseguenza, il vertice non ha deciso sostanzialmente nulla di nuovo al riguardo, ma ha lanciato due messaggi politici. Parte del messaggio, tramite l’enfasi sull’importanza delle iniziative europee di pooling and sharing, della cooperazione NATO-UE, e dell’industria della difesa europea, era rivolta all’establishment politico-militare del continente per ribadire che il problema di adeguati investimenti nella difesa è sempre e solo loro: gli Stati Uniti spendono abbastanza, e il loro bilancio della difesa è sufficientemente grande per sé da garantire economie di scala che nessuno dei 25 paesi europei da solo può raggiungere. La seconda parte del messaggio, con l’introduzione della nuova parola-chiave “NATO Forces 2020”, è che l’orizzonte temporale per ottenere risultati significativi è spostato nel lungo periodo. Ciò permette di esercitare comunque una certa pressione politica per conseguire qualche obiettivo, ed evita di affermare che la smart defense è fallita sul nascere; tuttavia, questa scelta rischia di innescare un processo che si autoalimenta anche a prescindere dai risultati concreti, solo in virtù della sua utilità politico-mediatica – una deriva ben nota all’UE quanto a politica comune di sicurezza e difesa.

Meno al centro dell’attenzione mediatica, ma con alcuni spunti politici interessanti, è risultata essere la posture review delle capacità nucleari e convenzionali della NATO, già avviata  nel 2010 al vertice di Lisbona. Le conclusioni di tale riflessione, approvate a Chicago, ribadiscono il messaggio politico che la NATO rimarrà una alleanza nucleare finché esisteranno le armi nucleari – con buona pace della cosiddetta “Opzione Zero” – e che il mix attuale di forze nucleari, convenzionali e missilistiche è soddisfacente ai fini della deterrenza alleata. Niente di nuovo sotto il sole dunque? Non proprio. Alcune frasi della dichiarazione sulla Deterrence and Defence Posture Review sembrano aprire uno spiraglio a future ulteriori riduzioni delle armi nucleari tattiche americane dispiegate nei paesi europei. Armi che sono già scese da alcune migliaia a inizio anni Novanta alle poche centinaia attuali. Una ulteriore riduzione, soprattutto in termini di armi schierate in Germania, avrebbe un certo rilievo per i paesi terzi con capacità nucleari. Questi ultimi, inclusa la Russia, hanno assistito alla diminuzione unilaterale della capacità di deterrenza nucleare dell’alleanza senza far corrispondere una proporzionale riduzione dei loro arsenali tattici. Non a caso la dichiarazione del summit lega in modo più esplicito del solito ogni ulteriori passo della NATO in fatto di disarmo a misure equivalenti da parte russa in un ottica di maggiore reciprocità.

Verso Mosca, e verso Tehran, sembra poi essere diretto il messaggio politico relativo alla difesa missilistica degli alleati europei. Elementi del progetto di scudo anti-missile che fu avviato da George W. Bush, e che poi anche grazie alla smart diplomacy di Obama è diventato della NATO, sono stati testati nel quartier generale alleato di Ramstein, in Germania. I risultati dei test sono controversi, visto che la soddisfazione espressa da parte NATO si scontra con valutazioni critiche di alcuni analisti sull’efficacia del sistema. Il vertice di Chicago ha dichiarato che è stata raggiunta una interim capability del sistema, passo necessario verso la realizzazione di una piena capacità operativa, ma al tempo stesso ha smorzato le aspettative affermando che nessun sistema anti-missile può assicurare una efficacia assoluta della difesa missilistica.

La dichiarazione di Chicago afferma dunque che il sistema serve piuttosto a limitare i danni di un eventuale attacco missilistico, e a dissuadere lo stato ostile dall’attuare l’attacco medesimo – e qui il destinatario sembra decisamente Tehran. Si è poi ribadito che il sistema non è diretto contro la Russia né potrebbe fare nulla contro la ben maggiore capacità nucleare russa.

Sebbene al summit sia stata reiterata la volontà di cooperare con la Russia sulla difesa missilistica, sembra ormai acquisito che il sistema di difesa anti-missile si farà nonostante l’opposizione russa. Interessante notare che la Turchia ha già dichiarato di mettere a disposizione una postazione radar, e che i costi della struttura di comando e controllo del sistema sarà finanziata con fondi comuni della NATO, cioè di tutti i paesi membri.

Nel complesso, rispetto al vertice di Lisbona – che aveva avuto il merito di approvare un nuovo Concetto Strategico che sostituisse quello in parte obsoleto del 1999 – il vertice di Chicago ha meno risultati all’attivo. Ciò è dovuto in parte all’anno elettorale dell’amministrazione Obama, che sostanzialmente puntava a una photo-opportunity con gli alleati europei per sottolineare il prossimo disimpegno dall’Afghanistan agli occhi dell’opinione pubblica americana. Anche il fatto che gli alleati europei siano assorbiti dalla crisi economica e monetaria ha di certo influito negativamente sull’investimento di capitale politico effettuato dai leader del Vecchio Continente nel vertice. Risultato? Il messaggio politico complessivo emerso da Chicago sembra essere, in effetti, che la NATO non sia in cima alla lista delle priorità dei suoi principali paesi membri.