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Il Vertice delle Americhe: il disgelo USA-Cuba e i nuovi equilibri regionali

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Il VII Vertice delle Americhe di Panama si è guadagnato le prime pagine di tutti i giornali planetari, con la storica stretta di mano tra il Presidente statunitense Barack Obama ed il suo omologo cubano Raúl Castro. Le reazioni sono state molto variegate. Plaudenti i media che più hanno appoggiato l’appeasement, il disgelo o l’abbattimento di uno degli ultimi muri rimasti in piedi dopo la Guerra Fredda. Si sono comunque sprecate le parole per descrivere la fine di un isolamento diplomatico ufficiale durato oltre 50 anni al pari dell’embargo USA. Tra i grandi promotori dell’operazione è da molto tempo il New York Times.

Essenzialmente su questa linea si sono schierati i Democratici in Congresso, fatta eccezione per Bob Martínez, il Senatore del New Jersey che più duramente si era opposto all’annuncio da Obama, trovando una sponda – nonostante le recenti accuse per una questione di presunte tangenti – nel network televisivo conservatore Fox News (pronto a criticare qualsiasi cosa faccia Obama, compresa naturalmente l’apertura a Cuba).

Al di là del caso Martínez, più frastagliato rispetto a quello democratico è il fronte del Partito Repubblicano, che per bocca di suoi esponenti illustri (come il candidato presidenziale Marco Rubio) ha gridato allo scandalo di “venire a patti con una dittatura” – come se la Cina, con cui gli Stati Uniti fanno business dai tempi di Richard Nixon grazie al genio diplomatico di Henry Kissinger, fosse una democrazia. Lo stesso GOP ha però registrato off the record numerose eccezioni – soprattutto quelle vicine al settore dell’imprenditoria. Evidentemente anche i conservatori americani leggono The Economist che, seppur con molto meno entusiasmo rispetto al New York Times, ha appoggiato la mossa di Obama in almeno un paio di editoriali negli ultimi quattro mesi.

Sul fronte cubano, trattandosi di una dittatura, l’analisi delle reazioni politiche è semplice e coincide con quanto espresso da Raúl – “disposti a parlare di tutto” ma “senza cedere nulla sul nostro modello”, che tradotto significa “facciamo pure affari, apriamo al commercio e allo scambio ma il nostro sistema politico rimane lo stesso”, cioè un sistema ispirato a quello cinese o, in alternativa, al vietnamita.

Più interessante analizzare le reazioni dei cubani dell’esilio – quelli di Miami in primis – e dell’isola, con cui ho avuto modo di parlare a fondo avendo visitato negli ultimi mesi entrambe le sponde dell’Oceano, separate da appena 90 miglia. I cubani dell’Avana sono in quasi tutti favorevoli al riallacciamento delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, Paese che nonostante la propaganda di regime vedono come modello a cui aspirare. La speranza di chi vive all’Avana è che presto alle parole seguano i fatti e che la fine dell’embargo economico consenta un maggior benessere diffuso.

“Io lavoravo per Costa Crociere” mi racconta Juan, che oggi fa il cameriere al paladar Vitriola, ottimo ristorante arredato in stile vintage dove in tv scorrono filmati della “mitica Cuba pre-rivoluzionaria” (quella di Batista tanto per intenderci, il tutto senza nessunissimo problema).

“Quando però una parte di Costa è stata partecipata da una società statunitense, a causa dell’embargo sono stati costretti a licenziarmi e, dunque, adesso faccio il cameriere”.

Quello di Juan è uno dei tanti assurdi aspetti dell’embargo che, per questo, non è stato solo una scusa del regime per rafforzarsi sul fronte interno ma ha davvero danneggiato la popolazione cubana.

Del resto i risultati di uno storico sondaggio condotto per conto di Univision Noticias/Fusion in collaborazione con il The Washington Post dall’agenzia demoscopica Bendixen & Amandi di Miami, lo ha dimostrato chiaramente nei giorni scorsi: i 1.200 cubani interpellati tra il 17 e il 27 marzo scorso hanno un’immagine positiva dell’80% di Obama (quella di Raul è più “umana”, al 47%), il 97% è felice dell’apertura, il 96% vuole la fine dell’embargo, il 65% viaggerebbe all’estero e poco più della metà, il 53%, pensa che nonostante propaganda ed embargo gli Stati Uniti siano dei grandi amici di Cuba.

Sorprendentemente anche sul fronte di Miami, soprattutto tra i cubani nati negli Stati Uniti che oggi sono maggioranza, non vedono l’ora che l’embargo finisca, chi come Pedro, concierge al Monaco resort, “per investire in immobili”, altri anche solo per andarci in vacanza.

Persino Eugenio Martinez (detto “Muscolito”), uno dei cinque ladri che fecero esplodere il caso Watergate, racconta che “Obama ha fatto bene perché l’embargo è stata un’idiozia durata sin troppo e l’apertura è adesso l’unica via percorribile”, a dimostrazione di come oggi anche molti vecchi anticastristi abbiano cambiato idea.

Diverso il caso dei dissidenti, affrontati in modo energumeno dal capo della security castrista al margine del Vertice parallelo della Società Civile a Panama: assieme all’opposizione venezuelana (che teme di “prendere il posto” di quella cubana), questi sono i maggiori danneggiati dal riavvicinamento tra Washington ed il regime castrista, soprattutto se all’apertura diplomatica ed economica non farà seguito anche un’apertura politica.

Al di là delle reazioni dei diretti interessati, tuttavia, perché il VII Vertice delle Americhe è importante per il futuro geopolitico dell’America latina? I motivi sono almeno quattro.

In primis, da Panama è venuto fuori che la forza regionale del Venezuela – avendo fatto di tutto, senza riuscire, per mandare all’aria il disgelo tra USA e Cuba con una ridicola raccolta di 11 milioni di “firme presunte” – è in netto calo, dopo un decennio in cui i petrodollari di Caracas sono stati dominanti sulle decisioni delle altre diplomazie regionali. Non c’è da stupirsi che il Presidente venezuelano Nicolás Maduro abbia usato sino all’ultimo la più bellicistica delle retoriche – a differenza di Raúl – perché il suo governo, aveva sostituto l’ex-URSS nelle forniture di energia a partire dal 1999, quando l’ex Presidente Hugo Chávez arrivò al potere. Oggi, a causa del barile sotto i 50 dollari, Caracas ha perso peso sullo scenario latinoamericano e se davvero l’embargo finirà come sembra, Cuba avrebbe come potenziali partner non solo il Venezuela, bensì il mondo.

Il secondo motivo d’importanza del Vertice delle Americhe è l’episodio sintomatico dell’aggressione vergognosa dei castristi ai dissidenti a Panama: qualora l’intero apparato delle sanzioni americane contro Cuba (lista nera per il terrorismo ed embargo) non fosse smantellato dal Congresso – il cui consenso è indispensabile a Obama – si rischia una fine del regime castrista “alla rumena” o “all’haitiana”.

Il terzo punto emerso dal Vertice di Panama è la ritrovata centralità in America latina del ruolo della Santa Sede – mediatore decisivo proprio per il riavvicinamento tra Washington e l’Avana. Presente al Vertice con il Segretario di Stato – Monsignor Pietro Parolin – che ha portato un messaggio del Papa. Non accadeva dai primi anni Sessanta, in occasione della crisi dei missili di Cuba. La Santa Sede oggi è anche in prima linea nel processo di pace in Colombia e per cercare di abbassare le tensioni in Venezuela. Sta avendo successo nel primo caso ma ancora non nel secondo; non è un caso che Bergoglio abbia scelto come “Ministro degli Esteri” proprio Parolin, che prima era nunzio apostolico proprio a Caracas. 

Un quarto punto, che al momento resta un’incognita, è il nuovo trade-off tra diritti umani, democrazie e business (nel contesto di riforme economiche per l’apertura dei mercati) da cui non è ancora molto chiaro cosa uscirà. Il rischio maggiore è l’indebolimento delle società civili locali, e andrà trovato un complesso equilibrio. Intanto con l’apertura a Cuba il Presidente Obama ha fatto la scelta migliore sia per l’economia che per la diplomazia degli Stati Uniti e dell’intera regione latinoamericana con la quale Washington torna finalmente a potersi confrontare ora che è finito il suo ostracismo escludente verso l’Avana.