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Il Venezuela sull’orlo del collasso: il fragile equilibrismo di Maduro

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A metà 2013, mentre la crisi globale iniziava a scaricarsi sulle economie emergenti, il presidente del Venezuela Nicolás Maduro riceveva a Roma il riconoscimento dell’agenzia alimentare dell’Onu, la Fao, per la riduzione della povertà estrema sulla scia delle conquiste sociali ed economiche del “chavismo”.

Oggi il quadro socio-economico del Paese è capovolto: razionamenti idrici ed energetici e assenza di beni alimentari e medicinali di prima necessità sono all’ordine del giorno, tanto che nel paese vige lo stato di eccezione ed emergenza economica da nove mesi. Nel 2015 l’inflazione ha chiuso al 180% e la recessione ha proseguito la sua corsa con una contrazione del pil del 7.1%. E la tendenza è al netto peggioramento: stando all’Fmi, le due cifre supereranno rispettivamente 700% e 10% entro fine 2016. Completano lo scenario il problematico rifinanziamento del debito pubblico, il disavanzo primario al 20%, il cervellotico sistema cambiario incurante del crollo del bolivar e la carenza endemica di dollari; mix condito dall’imperversare della corruzione. Ne fa le spese – naturalmente – la popolazione, costretta a lottare quotidianamente per il pane e per la propria sovranità. Il cerchiobottismo del governo, volto a contemperare stagflazione e afflato populista, ha infatti finito per privilegiare l’autoconservazione del sistema a scapito delle rivendicazioni popolari.

Il dissesto è funzione degli sconvolgimenti economici e (geo)politici globali, al pari della mancanza di pianificazione economica. Tra i fattori esogeni spiccano il crollo dei prezzi delle commodity internazionali, il rallentamento di grandi importatori come Pechino, e le politiche di tapering della Fed americana con conseguente fuga di capitali dalle economie emergenti.

Negli anni di bonanza i proventi dell’industria petrolifera – crollati del 70% nell’ultimo triennio – consentivano a Caracas di spendersi in politica estera e di implementare programmi di welfare capaci di inserire quote sostanziali della popolazione nel sistema occupazionale, sanitario, fondiario e scolastico. Contraltare è stata la pressoché totale dipendenza del Venezuela dall’esportazione di petrolio (pari al 97% dell’export totale, al 40% delle entrate statali e al 95% delle riserve valutarie), dall’importazione di beni primari (dimezzata nell’ultimo biennio per sopperire alla mancanza di liquidità) e dalla figura carismatica di Hugo Chávez. Con la sua scomparsa nel marzo 2013, e il prezzo declinante dell’oro nero, il modello fondato su esportazione di greggio e crescita dei consumi basata sull’import – non accompagnato da riforme strutturali in grado di consentire lo sviluppo e la diversificazione del sistema produttivo –  ha palesato i suoi limiti.

Contestualmente al deterioramento della congiuntura internazionale, solo in parte mitigata dall’interesse della Cina alla rinegoziazione del debito contratto da Caracas, la cadenza dei razionamenti e l’assenza di beni primari hanno raggiunto i livelli patologici attuali. A fronte dell’impossibilità dell’esecutivo di provvedere alla popolazione, sulla quale il chavismo ha edificato la propria legittimazione, le opposizioni riunite nella Mesa de unidad democrática (Mud) hanno conquistato dopo un quindicennio la maggioranza alle legislative del dicembre 2015. Il parlamento è così divenuto l’unico organo costituzionale controllato dalle opposizioni, tanto divise all’interno quanto sospinte dal malcontento che investe il paese.

Si è dunque inaugurato uno scontro tra poteri costituzionali che spiega sia le invettive di Maduro sulla Mud e le accuse di alto tradimento rivolte al parlamento, sia lo stallo politico-istituzionale. Da una parte la Corte costituzionale ad annullare sistematicamente gli atti del legislativo; dall’altra la battaglia delle opposizioni (sinora non-violenta) per rivendicare la sovranità popolare e il diritto sancito in Costituzione di convocare un referendum sulla deposizione anticipata della massima carica dello Stato. Mossa avvenuta ad aprile, alla quale il governo ha replicato adunando le forze che ancora lo sostengono e attuando una strategia finalizzata a dilatarne l’iter, rinviando l’eventuale referendum a dopo il 10 gennaio 2017, quando si entrerà nell’ultimo biennio del mandato presidenziale. In tal modo, la probabile sconfitta non determinerebbe l’indizione di elezioni presidenziali ma un semplice avvicendamento tra Maduro e il suo vice Aristóbulo Istúriz sino alla naturale scadenza del mandato (2019).

Dopo mesi segnati da lungaggini burocratiche frutto dell’ostracismo dell’esecutivo e da ripetute proteste di piazza – l’ultima, la “toma de Caracas”, ha visto partecipare il 1° settembre scorso un milione di persone – la Mud è riuscita a superare la prima fase dell’iter che prevede la raccolta dell’1% delle firme degli elettori. Il Consiglio elettorale nazionale, con tempistiche di dubbia legalità, ha poi stabilito le tre giornate (26-28 ottobre) in cui almeno il 20% dei cittadini dovrà esprimersi per l’attivazione del referendum. Discostandosi dalla prassi seguita nel 2004, ha tuttavia decretato non solo che la soglia dovrà essere raggiunta Stato per Stato e non su base nazionale (in una struttura federale come quella venezuelana), ma che i punti di raccolta saranno circa un quarto di quelli richiesti, e che non si arriverà comunque alla fase conclusiva entro l’anno.

Frattanto è proseguita la regressione della “marea rosa” latinoamericana, processo emblematizzato dall’elezione di Mauricio Macri in Argentina e dall’impeachment di Dilma Rousseff in Brasile, senza dimenticare il rapprochement tra Washington e L’Avana. Nel 2016, non a caso, Maduro ha visto il segretario dell’Osa Luis Almagro attivare la Carta democratica ai danni di Caracas data la “rottura dell’ordine costituzional-democratico” e Argentina, Brasile e Paraguay opporsi al semestre venezuelano di presidenza del Mercosur, fino a minacciarne la sospensione. Gli Stati Uniti, da parte loro, hanno invocato la rapida indizione del referendum revocatorio (così come altri 14 membri dell’Osa), confermato il Venezuela come “minaccia straordinaria” alla sicurezza e rinviato a giudizio l’ex direttore dell’Agenzia anti-narcotici del Venezuela – prontamente nominato da Maduro Ministro degli Interni. Per tacere degli appelli di Ban Ki-moon a Maduro e della reazione di operatori come Citibank – tra i maggiori intermediari finanziari della Banca centrale venezuelana – che si è detta pronta a cessare le attività nel paese.

Epilogo naturale il trinceramento dietro il potere militare, ago della bilancia dei rapporti di forza e meno disposto ad appoggiare incondizionatamente l’esecutivo dopo la scomparsa di Chávez. Le proroghe dello stato d’eccezione hanno funto da apripista alla creazione a luglio della “Gran misión abastecimiento soberano y seguro”, l’agenzia responsabile della produzione e distribuzione di generi di prima necessità e affidata al Generale Padrino López – ministro della Difesa e Comandante in capo delle Forze armate – trasformato da personaggio scomodo a mezzo di conservazione del potere.

La nomina sancisce il passaggio in mano militare dell’amministrazione e segnala la delicata posizione di Maduro: oltre l’ingombrante figura di Diosdado Cabello, una fronda interna all’élite militare osteggia il presidente. Tra questi l’ex Comandante dell’Esercito Alcalá Cordones, fedelissimo di Chávez, che non risparmia accuse generalizzate di corruzione, smentendo la versione ufficiale della crisi e dell’inammissibilità del referendum; i Generali Rodríguez Torres, da ministro degli Interni a contestatore di Maduro, e García Plaza, indicato da Cabello come fautore di un golpe spalleggiato degli Usa. Dall’altra parte della barricata, parallelamente, leader dell’opposizione quali Henrique Capriles e Ramos Allup (Presidente dell’Assemblea nazionale) hanno ripetutamente richiamato l’Esercito a difesa del popolo e affermato come esistano fazioni recalcitranti al suo interno.

L’equilibrismo del delfino di Chávez, ormai sulla difensiva e con una popolarità ai minimi (22%), è paradigmatico del senso di accerchiamento e dell’incertezza in cui versa l’esecutivo. Da una parte infatti lancia segnali distensivi, accettando la mediazione dell’ex premier spagnolo José Luis Zapatero sotto l’egida dell’Unasur o del Vaticano, rilanciando il dialogo con gli Stati Uniti ed effettuando altre operazioni cosmetiche come l’annuncio che il 70% del bilancio 2017 sarà destinato a programmi sociali. Dall’altra, invece, rifiuta concessioni concrete all’opposizione e fa ampio uso della retorica del nemico esterno, con accuse di sabotaggio e minacce all’imperialismo internazionale, alla borghesia e alla destra locali colpevoli di aver orchestrato una “guerra economica” e un “nuovo piano Condor ” per destabilizzare il paese.

In tal senso, la Ministro degli esteri Delcy Rodríguez ha fatto riferimento al “disegno oscurantista del neoliberalismo mondiale” capeggiato da Washington, volto ad affondare il fronte progressista del continente Sudamericano tramite l’uso di strumenti politici, mediatici ed economico-finanziari. Questo non fa che esacerbare la contesa con la Mud, dichiaratasi decisa a “obbligare il governo a rispettare la costituzione e celebrare il referendum nel 2016” con una nuova manifestazione generale (12 ottobre).

A fronte di istanze popolari trasversali, la pantomima sta scalfendo l’aurea di legittimità che ha contraddistinto l’azione degli esecutivi chavisti, con il rischio che oltre a impedire qualsivoglia abbozzo di dialogo ne derivi una stretta autoritaria e un inasprimento della lotta di potere. La tensione, difatti, crescerà fintantoché la polveriera venezuelana continuerà a essere esposta a pressioni esterne sempre meno arginabili e all’implosione socio-economica.