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Il settore istruzione&ricerca nell’economia europea che non cresce

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L’impatto della crisi sulla ricerca in Europa è stato molto acuto, anche se estremamente differenziato. Identificarlo è operazione complessa, prima di tutto per la multidimensionalità del settore, a partire dai diversi canali di finanziamento (pubblico o privato) e le relative finalità. Nel caso delle università una riduzione dei fondi ha anche un effetto sull’insegnamento, con possibili conseguenze sui livelli di istruzione. Inoltre, le prospettive occupazionali dei ricercatori sono strettamente collegate allo skill bias di un’economia, cioè il suo orientamento verso professioni che richiedono alti o bassi gradi di specializzazione.

Fatta questa premessa, è però possibile identificare come principale fattore il taglio ai bilanci pubblici delle università. Il rapporto Education at a Glance dell’OCSE del 2014 (purtroppo utilizzando solo dati fino al 2011), riporta come un quarto dei Paesi OCSE abbia ridotto la spesa per studente tra il 2008 e il 2011; questo è avvenuto principalmente a causa di una spesa che è aumentata in modo meno che proporzionale al numero di studenti. In alcuni Paesi (Ungheria, Russia, Italia e Polonia) il numero di studenti si è ridotto più dei finanziamenti all’università; se questo si traduce in una spesa per studente stabile, segnala probabilmente problemi più profondi di incentivi alla formazione e di diritto allo studio. Un documento di sintesi della piattaforma ERAWATCH (2013) della Commissione Europea riporta la riduzione dei fondi pubblici per la ricerca, associata a una ancora maggior contrazione di quelli provati. Un rapporto della European University Association del 2011 ne denuncia gli effetti, partendo dalla considerazione che i fondi pubblici rappresentano in media il 75% delle risorse finanziarie delle università europee. Qui si nota il primo sintomo di divergenza. Alcuni Paesi hanno tagliato più del 10%, come Italia, Grecia e Regno Unito – quest’ultimo caso accompagnato da un drastico aumento delle tasse; altri hanno disatteso le prospettive di un maggiore investimento; altri ancora (almeno fino al 2011) non hanno invece ridotto l’investimento nel settore universitario. Questi ultimi sono Germania, Francia, Olanda e i Paesi Scandinavi; se si considera, però, l’intero settore dell’istruzione, vediamo che anche Francia e Finlandia riducono i fondi nel 2012. Questa classificazione risulta utile per comprendere gli attuali percorsi di mobilità dei ricercatori.

In molti casi, i tagli hanno avuto effetti immediati sulla riduzione del costo del lavoro, tramite licenziamenti, congelamento delle assunzioni o riduzioni del turnover. È il caso di Regno Unito, Ungheria, Irlanda, Lettonia e Italia – Paese in cui, dal 2006, il numero di professori e ricercatori è complessivamente calato quasi del 20%. Un altro provvedimento frequente è stato il blocco dei salari (Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo, Estonia, Lettonia). L’allarme su tale scelta è stato recentemente lanciato dall’OCSE: in una breve pubblicazione del 2013 si legge che la riduzione salariale rischia di “scoraggiare i migliori studenti dalla carriera dell’insegnamento”. D’altra parte “i Paesi che hanno migliori risultati pagano anche di più gli insegnanti”.

L’effetto dell’austerità sul settore universitario mette in luce la contraddizione tra gli obiettivi dell’Unione in termini di crescita e sviluppo sostenibile, e i vincoli di politica economica che ne determinano le risorse disponibili. La strategia Europe 2020 prevede l’obiettivo di una spesa in ricerca e sviluppo (R&D) pari al 3% del PIL, ma dal 2009 la media europea stagna poco sopra il 2%.

La contraddizione è particolarmente evidente dove l’aggiustamento macroeconomico è stato più forte. Un caso interessante è il Portogallo, che era on track con una spesa in R&D cresciuta dallo 0,63% del PIL del 2002 all’1,64% del 2009; da lì in poi la cifra declina progressivamente per tornare all’1,5% nel 2012. Anche dal punto di vista dell’università (cruciale per un altro obiettivo di Europe 2020, ovvero l’estensione della formazione universitaria al 40% delle persone tra i 30 e i 34 anni), la spesa per studente tra il 2000 e il 2007 è cresciuta in Portogallo, con risultati importanti in termini di aumento di laureati e di rapporto studenti per insegnante, per ridursi nuovamente a partire dal 2008. 

Le prospettive occupazionali dei ricercatori dipendono dall’investimento in ricerca e sviluppo di un Paese; le analisi dell’OCSE evidenziano come gli Stati con maggiore investimento in R&D impieghino anche più ricercatori, e come gli Stati membri dell’Unione Europea siano caratterizzati da situazioni molto diversificate e in alcuni casi opposte. I Paesi nordici riportano infatti alti valori di spesa e alta presenza di ricercatori tra gli occupati, mentre Italia, Polonia, Slovacchia, Spagna, Ungheria e Grecia si trovano all’altro capo della distribuzione, con una spesa inferiore alla media OCSE.

Perché una tale divergenza? Prendiamo ad esempio il caso italiano, in cui le politiche di rigore fiscale si sovrappongono a limiti storici più profondi e a tagli dei finanziamenti già in atto prima della crisi. L’Italia si classifica ultima nella progressione verso l’obiettivo del 40% di laureati: oltre ad avere l’obiettivo nazionale più basso (26%), è attualmente poco sopra il 22%. Il Paese riporta nel 2012 la più bassa percentuale di laureati tra i 25 e i 34 anni rispetto a quelli con simile livello di investimento in ricerca, nonché il minore aumento di laureati tra generazioni successive.

Il taglio di fondi, sia “di base”, sia per progetti originali, che si è osservato a partire dal 2008, opera in un quadro di spesa già ben inferiore alla media UE-27. Il disinvestimento dal settore universitario si accompagna al peggioramento di un altro indicatore eloquente, ovvero la proporzione di occupati in mansioni specializzate, che è in Italia inferiore alla media UE (17% contro 23% circa) ed è in calo dal 2009. L’Italia vede dunque peggiorare il suo skill bias rispetto ai partner europei, dove invece la quota di lavoratori specializzati è in aumento (Germania, Francia, UK). Questo si riflette anche nella proporzione di ricercatori tra gli occupati: quattro ogni mille, contro gli 8-10 di Francia, Germania e UK.

Tornando al quadro complessivo, la giustificazione di molti governi per gli interventi di austerità è stata l’esigenza di rendere più efficiente il settore, sostituendo fondi pubblici con fondi ottenuti attraverso strumenti competitivi (bandi per finanziamenti esterni, gare, ecc.). Una delle critiche mosse dalla European University Association (2011) è, però, che questo crescente affidamento a strumenti di finanziamento competitivo, se accompagnato a riduzioni dei finanziamenti di base, rischi di minare la stabilità finanziaria delle università.

Italia e Ungheria (insieme a Estonia e Islanda) sono i Paesi che hanno ridotto maggiormente il budget per l’istruzione tra il 2008 e il 2011 (OCSE, 2013). Che i tagli dovuti alle politiche fiscali restrittive non abbiano risparmiato settori così strategici e già indeboliti è probabilmente un errore profondo di politica economica commesso sia a livello nazionale, sia in sede europea. Di fronte all’imperativo di riduzione dei bilanci pubblici, sono caduti i principi di coesione sociale, danneggiando anche le prospettive di sviluppo: i danni di lungo periodo di un disinvestimento da questi settori sono stati decisamente sottostimati, così come la velocità con cui la convergenza intra-europea degli anni precedenti alla crisi è venuta a mancare dal 2008 in poi.

I flussi di mobilità dei ricercatori confermano la divergenza in termini di investimento e prospettive occupazionali. Come si ricava da una ricerca del National Bureau of Economic Research (NBER, 2012), tra i Paesi che attraggono maggiormente ricercatori non ci sono solo gli USA, ma anche Svizzera, Canada, Australia, Regno Unito e Svezia (più del 30% dei ricercatori sono stranieri). A seguire, Belgio, Danimarca, Francia, Germania e Olanda, con percentuali superiori al 10%. Da alcuni di questi Paesi è elevata anche la mobilità out, mentre altri casi mostrano relativamente scarsa mobilità in entrambi i sensi (Spagna, Giappone, Brasile, dove meno del 10% dei ricercatori è immigrato o emigra). Esportatrice netta di cervelli è l’Italia, principalmente verso USA, Regno Unito, Francia e Germania.

Anche i flussi migratori restituiscono quindi un’immagine di un’Europa eterogenea, dove la spesa in università e ricerca è una forte determinante della capacità dei diversi Paesi di attrarre ricercatori. Questo lascia pensare che la crisi e le politiche fiscali restrittive che hanno colpito i bilanci pubblici per università e ricerca stiano acutizzando i divari interni. Anche in questo campo emerge una forte contraddizione tra gli obiettivi di coesione e di crescita dell’Unione e gli strumenti o i criteri adottati per raggiungerli.