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Il rapporto Turchia-Israele: da alleanza a epicentro di tensione?

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La crisi definitiva dei rapporti tra Turchia e Israele, che da tempo si temeva e si pronosticava, è probabilmente iniziata nei giorni scorsi, con l’espulsione della rappresentanza diplomatica dello Stato ebraico ad Ankara e il congelamento degli accordi militari tra i due paesi. Questo evento sembra segnare la fine di un’alleanza nata all’inizio degli anni Novanta, su impulso degli USA, fra due paesi entrambi anomali in una regione dall’identità arabo-islamica. Un’alleanza che ha rappresentato uno dei punti fermi del Medio Oriente negli ultimi due decenni. In Turchia, a volere fortemente quel rapporto speciale sono stati i militari, da sempre eminenza grigia dietro il potere politico di Ankara: per recuperare agli occhi degli Stati Uniti un’importanza strategica andata persa dopo il crollo dell’URSS; per avere accesso, attraverso Israele, a più moderne tecnologie belliche; e per marcare ancora una volta la laicità dello Stato turco e la sua distanza dal resto del mondo islamico. Persino durante la parentesi del governo Erbakan – che a metà degli anni Novanta ha tentato di dare una sterzata islamista al paese – l’alleanza ha retto, portata avanti da una diplomazia parallela dei militari che ha scavalcato il potere civile.

Lo stesso copione è sembrato andare in scena anche dopo l’avvento al potere in Turchia dell’AKP, un partito conservatore scaturito dal movimento islamista. Nei suoi primi anni di governo, Erdogan ha infatti cercato di smarcarsi dalle posizioni “antisioniste” rivendicate da sempre dagli islamisti come Erbakan. In quella fase è risultato chiaro il tentativo di porsi come attore super partes, che potesse farsi garante di una sistemazione pacifica del Medio Oriente: in particolare con un tentativo di mediazione tra Israele e Siria. Già nel 2004, tuttavia, si è avuta un’avvisaglia di mutamento, quando il governo turco ha accusato Israele di terrorismo di stato in seguito all’assassinio dello sceicco Yassin, capo carismatico di Hamas. Le critiche sono continuate negli anni successivi, dopo l’invasione israeliana del Libano nel 2006, e l’operazione “piombo fuso” a Gaza nel 2008. È nel 2009, tuttavia, che il deterioramento dei rapporti è accelerato bruscamente. Prima Erdogan, nel mese di gennaio, ha attaccato direttamente il presidente Simon Peres al meeting di Davos e, quattro mesi dopo, ha nominato Ahmet Davutoglu – ideologo del “neo-ottomanismo” che non cela la propria identità islamica – al ministero degli Esteri. Si è così inaugurata una nuova fase della diplomazia di Ankara, che inquieta non poco le cancellerie occidentali, in particolare per il riavvicinamento all’Iran.

Il risultato è uno sfruttamento sempre più tribunizio della causa palestinese, che ha reso Erdogan popolarissimo nel Medio Oriente arabo, togliendo però credibilità all’idea di una Turchia come mediatore imparziale. Questo nuovo corso si è concretizzato, nell’estate del 2010, con la sponsorizzazione della Freedom Flotilla, una spedizione navale volta a forzare il blocco di Gaza per portare aiuti: iniziativa bloccata con la forza da Israele, con un raid che ha causato nove vittime turche. Ankara ha assunto su questa vicenda una posizione molto dura, esigendo scuse ufficiali, un risarcimento per le vittime, e l’incriminazione dei responsabili. Nei successivi negoziati il governo israeliano ha tuttavia respinto la richiesta, limitandosi ad offrire risarcimenti e una generica espressione di rammarico per le vittime.

L’atmosfera tra i due paesi è rimasta, da allora, gelida (con la cancellazione anche di alcune manovre militari congiunte). Nonostante questo, timidi segnali di apertura da ambo le parti hanno fatto sperare che la situazione si potesse assestare: in particolare, la scelta turca di non sponsorizzare una nuova Freedom Flotilla nel 2011. Le speranze sono naufragate quando il rapporto ufficiale dell’ONU, pubblicato all’inizio di settembre, ha dichiarato “eccessivo e irragionevole” l’uso della forza da parte di Israele (pur affermando il suo diritto a far rispettare il blocco di Gaza ed esprimendo riserve sulle reali intenzioni degli attivisti della Flotilla). Da qui la reazione turca dei giorni scorsi, che ha portato al congelamento di fatto dei rapporti tra i due paesi.

Al di là delle motivazioni ufficiali, il comportamento di Erdogan non può essere compreso se non si considera la strategia turca di penetrazione politica ed economica in Medio Oriente: questa punta su un appello alle masse arabe per cui l’intransigenza verso Israele è un fattore essenziale. Non è un caso che proprio la folla egiziana, che ha acclamato il primo ministro turco (nella prima tappa del suo “tour della primavera araba”, che comprende anche Libia e Tunisia), abbia nei giorni scorsi assaltato l’ambasciata israeliana al Cairo, in risposta alla più recente azione militare dello Stato ebraico al confine del Sinai.

La situazione è pericolosa, anche perché non si intravedono fattori che possano frenare questa deriva del governo di Ankara. A livello interno, l’opinione pubblica turca appoggia in maggioranza l’intransigenza del primo ministro contro Israele (a tal punto che persino il partito curdo – PKK – ha smentito la possibilità di ricevere aiuti dallo Stato ebraico). A livello internazionale, non si fanno sentire adeguatamente né un’Europa divisa e concentrata sulla crisi economica, né gli Stati Uniti, che hanno storicamente un legame organico con Israele ma che vedono nella Turchia un giocatore imprescindibile nella democratizzazione e stabilizzazione del mondo arabo.

Ora si tratterà di analizzare e gestire le ripercussioni del voto all’assemblea dell’ONU sul riconoscimento ufficialmente dello Stato palestinese: dobbiamo comunque attenderci un nuovo aumento della tensione, non solo tra Turchia e Israele, ma in tutta la regione mediorientale.