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Il puzzle indiano alla vigilia delle elezioni: la democrazia multiculturale e i suoi rischi

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Circa 714 milioni di persone (di cui circa 100 milioni per la prima volta) saranno chiamati alle urne per rinnovare il Lok Sabha, la Camera del popolo indiano. Le elezioni si svolgono in 5 turni elettorali (dal 16 Aprile al 13 maggio 2009) e sono suddivise per aree del paese. Secondo un sistema elettorale uninominale maggioritario, che dunque non garantisce la rappresentanza proporzionale delle forze politiche in competizione ma presenta indubbi vantaggi sotto il profilo della stabilità, si scontrano due partiti principali coalizzati con una serie di alleati: l’Indian Congress Party del governo uscente e il Bharatiya Janata Party (Bjp) attualmente all’opposizione.

Non vi è dubbio che l’India sia multietnica e multiculturale. Che fosse tollerante si è ritenuto per lungo tempo. Il messaggio gandhiano, l’interazione positiva fra induismo e democrazia, i principi di non allineamento, hanno dato un’immagine dell’India ricca di profonda spiritualità, ma attento a difendere la laicità delle sue istituzioni e l’uguaglianza di tutte le sue componenti.

Si ha oggi la sensazione che l’ideologia religiosa possa arrivare a minacciare gli ideali di questo pluralismo tollerante e lo stesso principio di legalità. Dal pogrom etnico/religioso che si verificò nello Stato del Gujarat nel 2002, agli attacchi contro i cristiani nel 2008, allo stillicidio di attacchi in Kashmir, fino alla strage di Mumbai: il tratto comune è lo scontro fra e sostenitori dell’omogeneità etno-religiosa e quelli di un tipo di cittadinanza più inclusivo e pluralistico. Spesso, agli occhi degli occidentali, l’estremismo religioso appare legato esclusivamente ai musulmani. Questo schema semplicistico è in realtà del tutto inapplicabile al caso indiano.

Lo scontro di civiltà che non c’è stato
La nozione  di “scontro di civiltà” non aiuta affatto a comprendere episodi del genere, né la natura dello stato indiano. Come scrive Amartya Sen, l’India “deve risultare piuttosto sconcertante per coloro che vedono il mondo contemporaneo come uno ‘scontro di civiltà’ – con la ‘civiltà islamica’, la ‘civiltà induista’ e la ‘civiltà occidentale’ l’una necessariamente contro l’altra”.

Con oltre 150 milioni di musulmani, l’India è il secondo Paese al mondo in quanto a popolazione musulmana (dopo l’Indonesia e prima del Pakistan): sono il 13,4% della popolazione, rispetto all’80,5% di Hindu e il 6,1% appartenente ad altre religioni. Ciò si riflette in una struttura politico-amministrativa molto diversificata: 35 unità territoriali (cioè 28 stati e 7 territori) governate con vari gradi di autonomia e con connotati molto specifici.

Le lingue ufficialmente riconosciute sono 22 (con l’aggiunta dell’inglese, 23). La più diffusa è l’hindi, (parlato da circa il 40% della popolazione), lingua ufficiale dell’Unione e dunque, in teoria, dell’amministrazione federale. Gli stati membri hanno però la possibilità di adottare una o più lingue “regionali” come proprie lingue ufficiali. Tale flessibilità è stata essenziale per la stabilità della Repubblica. All’interno di ciascuno Stato, infatti, la lingua regionale ha consentito l’efficienza dell’amministrazione e favorito la creatività culturale, senza ostacolare l’identificazione di tutti i cittadini con una più ampia nazione. Gli indiani si sentono simultaneamente parte della piccola patria d’origine e della più estesa nazione: si è insieme bengalesi e indiani, tamil e indiani, gujarati e indiani. Ma vi sono altri  fattori cruciali, ereditati dal Raj britannico, che garantiscono la sopravvivenza della nazione: anzitutto la struttura amministrativa, che fu mantenuta dopo l’indipendenza (tranne nel nome, da Indian Civil Service, ICS, a Indian Administrative Service, IAS) e che resta imperniata su un corpo selezionatissimo di funzionari. C’è poi un esercito professionale tradizionalmente apolitico. E infine la diffusione, sia pure ad un livello culturale elevato, dell’inglese (parlato correntemente da meno del 10% della popolazione) come lingua franca nella vita pubblica e nel mondo economico. In effetti, la Costituzione ha riconosciuto l’inglese come lingua da utilizzare in via provvisoria, in attesa della completa diffusione dell’hindi su tutto il territorio.

Come si vede, l’India si è appropriata in modo creativo della cultura coloniale, intrecciandola con le proprie tradizioni. Questo vale per gli aspetti giuridici, ma anche per quelli letterari e artistici. I britannici furono, per la maggior parte degli indiani, sfruttatori, tiranni e razzisti; ma la loro cultura fa ora parte della cultura indiana nel bene e nel male.

Le differenze regionali sono immense; alcune regioni, specialmente al Sud, ebbero per secoli più rapporti con altre parti dell’Asia meridionale e sudorientale (e con l’Europa) che con il resto di ciò che oggi chiamiamo India.

Anche il tentativo della Costituzione indiana di conciliare una rigorosa tutela dei diritti individuali con una forte spinta verso la realizzazione dell’uguaglianza sostanziale e dei diritti sociali, presenta elementi di forte originalità. Quel tentativo culmina nelle politiche di affirmative action a favore di categorie e gruppi sociali particolarmente svantaggiati. L’Unione federale indiana rappresenta in effetti uno degli ordinamenti democratici che dagli anni cinquanta hanno maggiormente utilizzato quello strumento di intervento attivo. Si tratta di una scelta di politica istituzionale che si è affermata fin dai primi anni di vigenza della Costituzione del 1949-50, proprio per fronteggiare la realtà delle molte differenze regionali. Ad esempio, nell’amministrazione territoriale si è voluto dare voce all’India dei villaggi e delle comunità tribali, ancora presenti in numero rilevante, attraverso l’istituzionalizzazione dei panchayats (gli antichi “consigli dei saggi”). Ciò illustra un’ulteriore caratteristica dell’ordinamento indiano, proteso verso il riconoscimento e l’integrazione di regole, usi e costumi tradizionali nel nuovo contesto istituzionale.

E’ altrettanto interessante l’approccio alle problematiche di convivenza confessionale: oggi in India esistono 6 grandi religioni (induismo, buddismo, jainismo, religione islamica, cristiana e sikh), e l’81,4 % dei credenti risultano (all’ultimo censimento) di religione induista. L’induismo non può essere considerato una religione unitaria: non possiede infatti un’organizzazione o una gerarchia religiosa riconosciuta unanimemente su tutto il territorio.

Presidente della Repubblica fino al luglio 2007 è stato un musulmano, primo ministro è oggi un Sikh, leader del partito ora più influente è Sonia Gandhi, una cattolica nata in Italia. Sotto il profilo religioso la Costituzione incoraggia il pluralismo, avendo scelto un atteggiamento “laico” che esclude la possibilità di individuare una religione di Stato e lascia assoluta libertà di credo e di professione.

Le ragioni della tensione
E’ innegabile, d’altra parte, che il paese soffra di contraddizioni che ostacolano il pieno compimento di un assetto equo e democratico. In primo luogo, per la presenza di veri e propri conflitti, come nella regione del Kashmir, ma anche ricorrenti esplosioni di violenza (in un paese fondato sulla non violenza), o il permanere di un sistema castale illegale nella forma ma vivissimo nella pratica. Ci sono poi le  violazioni dei diritti umani nelle ripetute proclamazioni dello stato d’emergenza, come anche la condizione della donna – specie se musulmana e in quanto soggetta alla sharia nonostante la Costituzione. E naturalmente la presenza di circa 300 milioni di persone in stato di miseria, con una situazione complessiva di scarsa sicurezza alimentare nel Paese.

Per quanto riguarda la maggior parte della comunità musulmana, le chiavi di lettura della discriminazione sono l’emarginazione socio-culturale e l’inferiorità economica. I governi indiani hanno cercato di promuovere politiche volte a ridurre il divario di cui soffrono i musulmani, ma con risultati scarsi. L’ultimo tentativo, il Rapporto Sachar del 2006, indica linee di azione ad ampio raggio, che hanno scatenato polemiche tuttora non superate. Il rapporto traccia una situazione sconfortante per i musulmani: in termini socio-economici i musulmani si collocano su un piano poco superiore a quello dei dalit (intoccabili) e delle popolazioni tribali: il 30% appartiene alla categoria a più basso reddito, contro il 9% degli hindu. Solo il 4% rientra in quella a reddito più elevato, contro il 17%  per gli hindu. I musulmani nella Pubblica amministrazione sono appena il 5 % ; gli alfabetizzati sono il 59% contro una media nazionale del 65%. In Parlamento i musulmani sono 33 su 543.

Il Rapporto Sachar ha proposto l’istituzione di una Commissione di Pari Opportunità, accompagnata da una serie di misure di affirmative action e quote riservate, già previste per gli intoccabili: incentivi per l’istruzione (il 25% dei giovani musulmani non va a scuola), per l’impiego nella Pubblica amministrazione ecc.

A fronte di questi sforzi, la destra nazionalista si richiama esplicitamente ai principi dell’hindutva, cioè della supremazia hindu sulla società. Vi sono sempre stati movimenti integralisti in India, ma negli ultimi anni essi hanno preso maggiore consistenza sino ad arrivare all’assunzione di responsabilità di governo da parte del Baratiya Janata Party (BJP). Nato negli anni Venti del secolo scorso, il movimento dell’hindutva proclama la necessità di un’India induista e del mantenimento del rigido sistema castale – in barba al secolarismo. Con la nascita del BJP nel 1980,  l’induismo politico ha ampliato la sua base tra le masse e si è fatto strada nelle istituzioni. La volontà di affermare l’hindutva ha inevitabilmente bersagliato in primo luogo la comunità musulmana.

I musulmani hanno rappresentato per anni uno dei bacini elettorali più affidabili per il partito del Congresso, che in cambio ne ha garantito una certa rappresentanza. Con la fine dell’egemonia del Congresso e il crescente peso delle formazioni regionali, le cose stanno cambiando. La frammentazione del quadro politico indiano offre oggi la possibilità di entrare in maniera più diretta nei giochi di potere alla ricerca di un’uguaglianza non soltanto formale ma sostanziale.

La democrazia sui generis
Nel caso indiano, la minaccia alla democrazia non viene dai musulmani o da qualche scontro fra civiltà europea e non-europea, bensì da uno scontro fra due differenti concezioni della nazione indiana e due tipi di patriottismo. Uno di questi vede l’India come una nazione pluralistica, costruita su ideali di rispetto per le diverse tradizioni regionali, etniche e religiose, e unita dall’impegno per una legalità democratica ed egalitaria. L’altro tipo crede che una tale unità moralmente fondata sia troppo fragile e che soltanto l’unità nell’omogeneità etnica faccia forte la nazione.

La democrazia e la legalità hanno dimostrato di essere forti e reattive, ma per il futuro la loro tenuta non può essere data per scontata. A ben guardare, l’India ci sta fornendo lezioni utili, perchè questo scontro sui valori democratici è  presente, in una forma o nell’altra, in molte  democrazie contemporanee. Il caso indiano mostra come una democrazia può sopravvivere all’attacco dell’estremismo religioso, il che può tornare utile a tutte le democrazie contemporanee. Questo sistema democratico ha legittimato l’induismo come elemento caratterizzante dell’unità nazionale, ma allo stesso tempo – in nome del principio di tolleranza – ha consentito il libero articolarsi degli interessi di parte, senza incorrere in crisi drammatiche di rigetto da parte della maggioranza. In altri termini, la democrazia in India è sempre stato il garante di ultima istanza della disomogeneità sociale, ma senza di essa il paese semplicemente non potrebbe esistere, finendo preda di tendenza autoritarie. E’ quanto è accaduto in Pakistan, dove la maggiore omogeneità sociale potrebbe aver determinato un minore bisogno di democrazia, cedendo con maggiore facilità il passo alla dittatura.

Certo, la democrazia indiana è sui generis, ben diversa dai modelli europei: in Parlamento vengono eletti a volte alcuni dei più potenti capi di cosche criminali; la corruzione è connaturata al sistema, e la pratica di trasmettere privilegi e incarichi ai membri della propria famiglia è apertamente accettata; fra i parlamentari vige un trasformismo spregiudicato; il voto segue spesso fedeltà clientelari più che ragionamenti politici, e il peso delle caste è dovuto proprio al controllo dei meccanismi di consenso elettorale. Nonostante tutto ciò, stiamo parlando di una democrazia che riunisce oltre un miliardo di persone: la dialettica politica è vivace e l’alternanza funziona; le minoranze hanno una voce, ancorché insufficiente; l’azione del governo è sottoposta a uno scrutinio effettivo, e l’ordinamento giudiziario offre garanzie accettabili per i cittadini.

Il grande puzzle indiano resiste, nonostante le molte tensioni a cui sarà sottoposto nei prossimi anni.