Il primo turno delle elezioni presidenziali in Brasile, svoltosi domenica 5 ottobre, si è chiuso con Dilma Rousseff in testa con il 41% dei voti. Una vittoria non definitiva, che costringerà la candidata del Partido dos Trabalhadores (PT, di sinistra), e capo di Stato in carica, a sfidare il candidato del Partido Socialdemocracia Brasileira (PSDB, di destra malgrado il nome) Aécio Neves (che ha preso il 33%) al ballottaggio previsto per il 26 ottobre.
A seconda dell’arco temporale di riferimento, questo risultato può essere considerato clamoroso, prevedibile, sorprendente o ragionevole. Un rapido riassunto dell’ultimo anno e mezzo della politica brasiliana spiega l’esito del primo turno e dà qualche indicazione sul ballottaggio.
Diciotto mesi fa, all’inizio dell’autunno australe 2013, pochi pensavano che Dilma avrebbe avuto bisogno di un secondo turno (addirittura dall’esito non scontato) per confermarsi al Planalto, la sede ufficiale della presidenza della Repubblica a Brasilia. L’erede di Luiz Inácio Lula da Silva aveva portato avanti le politiche redistributive del suo illustre predecessore, il primo capo di Stato espressione della sinistra dal ritorno della democrazia nel 1985. Certo, il tasso di crescita si era più che dimezzato rispetto agli anni d’oro di Lula, l’inflazione aumentava e il real, la valuta nazionale, continuava a fluttuare instabile. Ma la popolarità di Dilma era attorno al 70%.
Appena poche settimane dopo, a partire dal giugno 2013, il quadro appariva molto diverso: le proteste scoppiate a San Paolo – la metropoli più importante del Brasile – per un motivo locale quale l’aumento del prezzo dei biglietti per il trasporto pubblico a fronte dello stesso servizio scadente si erano presto estese al resto del paese. A spingere ovunque i manifestanti in piazza erano ragioni non solo contingenti ma anche strutturali: l’indignazione per la corruzione e le malversazioni dei soldi pubblici stanziati per la Confederations Cup e per i Mondiali di calcio celava un endemico malcontento verso il governo.
Con Dilma il PT si era fatto sistema e aveva perso di vista i bisogni della nuova classe media, creata dalle politiche dello stesso partito ai tempi di Lula, con i generosi programmi di welfare che hanno traghettato milioni di brasiliani fuori dalla povertà. A queste persone non basta più che istruzione, sanità e altri servizi siano gratuiti (o a prezzi sussidiati): vogliono che siano anche di qualità. Rivendicazioni che dovrebbero essere condivise e portate avanti da un partito di sinistra come quello di Dilma.
Dall’estate 2013, la popolarità della presidente iniziava così a calare vertiginosamente e per la prima volta si metteva in discussione la probabilità di una sua rielezione, per lo meno al primo turno. L’eventualità di un ballottaggio tra lei e il presidente del PSDB Aécio Neves – ufficialmente candidato da giugno di quest’anno, effettivamente in pista da almeno sei mesi prima – diventava gradualmente un’eventualità realistica.. Il quadro cambiava però di nuovo, bruscamente, il 13 agosto 2014. Quel giorno moriva in un incidente aereo Eduardo Campos, il candidato presidenziale del Partito Socialista (PSB) che i sondaggi davano a molta distanza da Dilma e Aécio. Al suo posto il PSB sceglieva Marina Silva, l’ambientalista ex PT già arrivata terza alle elezioni del 2010 con il Partito Verde, poi abbandonato nel 2011. In precedenza il Tribunale Supremo Elettorale aveva bocciato la sua candidatura con Rede Sustentabilidade (il suo nuovo progetto) e Marina aveva accettato di correre come vicepresidente nel ticket con Campos.
L’enorme ondata emotiva seguita alla drammatica morte di Campos, il fascino della candidatura di Marina e l’ulteriore rallentamento dell’economia brasiliana – entrata intanto in recessione nel primo semestre di quest’anno – rivoluzionavano ancora una volta il quadro elettorale. I sondaggi registravano il calo di Dilma, alle prese anche con un paio di presunti casi di corruzione legati alla compagnia petrolifera nazionale Petrobras. Marina era data in costante ascesa: nessuno dubitava che sarebbe arrivata al ballottaggio e si iniziava a pensare che avrebbe anche potuto vincerlo.
Le urne hanno dunque emesso un verdetto sorprendente rispetto ai sondaggi (non agli ultimissimi in realtà), ma ragionevole se visto in prospettiva: un imprevisto prevedibile.
Dilma non ha vinto al primo turno e pur essendo favorita non è sicura di vincere al ballottaggio perchè durante il suo mandato il Brasile ha smesso di correre. L’economia è cresciuta meno, l’inflazione è aumentata e la fiducia della finanza internazionale si è persa. I problemi politici non sono stati affrontati e in alcuni casi il governo del PT è ricorso alle stesse pratiche corruttive contro le quali si era battuto in passato. In poche parole, con Dilma il Partito dei Lavoratori ha dato l’impressione di essersi fatto sistema e di aver perso la sua carica progressista.
Rimane da vedere se c’è un’alternativa davvero credibile. Marina Silva non poteva esserlo: il suo tentativo di tenere insieme gli ambientalisti, i delusi del PT e un’ala più liberista dell’elettorato (con la promessa di rendere la Banca Centrale indipendente dal governo e di intervenire meno nell’economia) si è rivelato infruttuoso. Svanita l’ondata di commozione per la morte di Campos, durante la campagna la sua sostituta ha dimostrato inoltre di non saper reggere gli attacchi concentrici di Dilma e Neves.
Quest’ultimo ha senza dubbio maggiore esperienza – fu governatore di Minas Gerais, il secondo Stato più popolato del Brasile, per otto anni – e credibilità nel campo liberale. Però non si è dimostrato capace di prendere voti nel Nord del paese e – soprattutto – potrebbe avere qualche problema ad attrarre il consenso della parte “di sinistra” dell’elettorato di Marina, a prescindere dall’appoggio di quest’ultima. I delusi da Dilma, dopo aver espresso il loro malcontento al primo turno, potrebbero tornare nei ranghi o disertare le urne.
Tuttavia rimane chiaro il segnale più importante del voto del 5 ottobre: una diffusa volontà di rinnovamento. L’ha compreso anche Dilma, che ne ha fatto lo slogan della campagna: “Più cambiamento, più futuro”. Il 26 ottobre scopriremo se i brasiliani vorranno ridare a lei le chiavi del governo, o se il cambiamento passerà per le mani di Aécio Neves.