international analysis and commentary

Il populismo in Medio Oriente: la hasbara israeliana e la propaganda palestinese

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Il Medio Oriente è sicuramente un terreno fertile per il populismo: in particolare, il conflitto israelo-palestinese da più di sessant’anni si presta ad ogni tipo di strumentalizzazione politica da entrambe le parti. In Israele, come in Palestina, il populismo è lo strumento privilegiato per compattare le masse contro il nemico comune e deviare la loro attenzione da altri obiettivi politici, compreso il rispetto di quelle garanzie democratiche che dovrebbero essere assicurate indipendentemente dai sussulti dei negoziati di pace.

Negli ultimi mesi, il populismo è stato scientemente coltivato in Israele per giustificare e coprire gli assalti della destra nazionalista (tanto laica quanto religiosa) agli assetti costituzionali e alla prassi democratica in vigore dal 1948. Quella che si vuole far prevalere è una concezione sostanzialmente etnica e di democrazia “bloccata”, le cui garanzie e tutele si arrestano laddove viga l’interesse di stato, dove siano a rischio segreti militari o dove siano presenti minacce alla sicurezza collettiva, intese in un’accezione molto ampia.

Vari episodi recenti in questa lunga storia sono legati  alla hasbara , o propaganda politica di marca israeliana, lanciata all’indomani della Gaza Flotilla del 31 maggio 2010. Un problema specifico e’ sorto per il fatto che il giudice Richard Goldstone e la sua commissione ONU (sulla guerra di Gaza del 2008-9) si sono avvalsi di alcune testimonianze, dati e documenti forniti da associazioni e organizzazioni non governative israeliane afferenti alla sinistra e finanziate principalmente dal New Israeli Fund. Cio’ ha portato Avigdor Lieberman a proporre alla Knesset un disegno di legge finalizzato al monitoraggio ed al divieto di finanziamenti esteri per tali ONG. La Gaza Flotilla ebbe anche dirette ripercussioni su altri tre disegni di legge presentati di lì a poco: il giuramento di lealtà allo stato ebraico per i deputati arabi, il divieto di commemorazione della Nakba (la “catastrofe” della creazione dello stato ebraico, per gli arabi) all’interno dello Stato di Israele, e la legge antiboicottaggio degli insediamenti approvata in luglio. Tutte queste iniziative legislative rientrano in un disegno politico più complessivo, portato avanti da Israel Beitenu, da Shas e da una parte sostanziale del Likud: un attacco a quelle garanzie costituzionali (le leggi fondamentali, in assenza di una Costituzione scritta) e a quei diritti civili che vengono spesso utilizzati dalle organizzazioni di sinistra per sollevare questioni di principio. Le azioni dei movimenti di questo tipo sono ora considerate, in sostanza, lesive per la sicurezza nazionale, ovvero atti di tradimento nei confronti dello stato. Si deve sottolineare del resto che una parte maggioritaria dell’opinione pubblica ritiene i partiti di sinistra e la Corte suprema eccessivamente schierati a tutela dei Palestinesi, e del riconoscimento dei loro diritti collettivi e delle minoranze all’interno di Israele.

Un’altra manifestazione di tendenze populiste nei dibattiti pubblici in Israele e’ la campagna contro la presentazione di scuse ufficiali alla Turchia per i nove morti (appunto, cittadini turchi) della Mavi Marmara nell’episodio della Gaza Flottilla. Nel complesso, Israele conduce una campagna di stampo nazionalista, fornendo una risposta semplicistica a un problema di diritto internazionale che ha sollecitato anche la convocazione di una nuova commissione d’inchiesta alle Nazioni Unite.

Per certi versi, la stessa vicenda politica di Ehud Barak potrebbe riflettere una deriva populista: oltre ad aver accettato un ruolo di primo piano nel governo Netanyahu, ha lanciato il nuovo partito Haatzmaut, in polemica con il vecchio partito laburista. Così facendo, conferma una tendenza verso l’indebolimento dei partiti tradizionali e dell’identificazione collettiva con essi.

Se guardiamo alla Palestina, una forma di populismo si articola su questioni diverse. Certamente, l’attenzione sempre alta sul tema del conflitto e dell’occupazione israeliana serve all’ANP – e ancor più ad Hamas – a deviare l’attenzione pubblica dalla crisi finanziaria che imperversa. Questa è visibile sopratutto nel recente congelamento degli stipendi dei dipendenti pubblici per mancanza di liquidità, dovuta al mancato recepimento della seconda tranche di contributi esteri. La campagna per la riconciliazione nazionale, che rispondeva a un’esigenza fortemente sentita dall’opinione pubblica sia della West Bank che della Striscia, ha avuto un’importante eco nei mezzi d’informazione filogovernativi ma non ha avuto seguiti politici concreti. Notizie recenti – come il caso di Amal Hammad, membro di Fatah, a cui è stato negato il diritto di lasciare Gaza per partecipare al comitato centrale dell’OLP in Cisgiordania –  confermano che il problema dei detenuti nelle rispettive carceri e la libertà di movimento per i rispettivi dirigenti politici è un problema ancora irrisolto. Esso era infatti tra gli obiettivi prioritari di lavoro della commissione congiunta, identificati nella bozza di accordo, come del resto il nodo sulla ricandidatura di Salam Fayyad a primo ministro. Tali contraddizioni riscontrate nell’ANP non derivano certamente dall’occupazione israeliana. E altrettanto può dirsi delle difficoltà incontrate nel sostegno alla richiesta di riconoscimento delle Nazioni Unite a settembre – sposata da Fatah, ma stemperandone i toni, affermando che i negoziati bilaterali con Israele restano una possibilità sempre aperta.

L’altra questione rimasta ai margini della propaganda ufficiale è  la risposta alle richieste di democratizzazione interna avanzate sull’onda della Primavera araba: se, infatti, alcune promesse – tra cui l’indizione di nuove elezioni – sono state ventilate a seguito alle manifestazioni di solidarietà alle rivoluzioni egiziane e tunisine, l’ANP si è dimostrata ad esempio molto cauta nella condanna della repressione siriana.

Le uniche misure pratiche adottate per stemperare la crisi economica, in definitiva, sono state la calmierazione dei prezzi di beni di prima necessità e l’introduzione di sussidi a prodotti alimentari di ampia distribuzione. L’ANP sembra puntare tutta l’attenzione popolare sull’istituzione di uno Stato a settembre, omettendo il fatto che il riconoscimento diplomatico non apporterà affatto i cambiamenti che il complesso della popolazione si attende.

In conclusione, il populismo in Israele e Palestina rimane essenzialmente legato all’uso del conflitto irrisolto per posticipare la risoluzione di questioni sociali e democratiche complesse. Sono comunque questioni che non si risolveranno certo da sole e che dunque continueranno a influenzare – e limitare – le scelte politiche già difficili di entrambe le parti.