Era scontato che il viaggio del Santo Padre prima a Cuba da Raúl Castro e poi negli Stati Uniti da Barack Obama scatenasse polemiche per molti motivi. Il primo è che se l’appeasement tra Washington e l’Avana è iniziato, il merito è stato in gran parte di Papa Francesco e della diplomazia della Santa Sede: questa rappresenta un potere di gran lunga superiore alle minuscole dimensioni dello stato Città del Vaticano grazie alle migliaia di vescovi, missionari e diocesi sparsi per il mondo. Ufficialmente il “cambiamento storico” è avvenuto il 17 dicembre scorso, quando in diretta tv i presidenti della dittatura più antica dell’America latina e della “democrazia imperiale” che condiziona i destini – ambientali, finanziari e militari – del pianeta hanno annunciato la “ripresa del dialogo” per normalizzare le loro relazioni.
A detta delle stesse parti in causa, la mediazione del Vaticano tra Washington e l’Avana sarebbe durata 18 mesi. In realtà il cardinale Jaime Ortega Alamino stava lavorando a questo obiettivo da molto più tempo, grazie ad un rapporto personale aperto da anni con Raúl Castro. Del resto fu proprio l’arcivescovo dell’Avana, massima autorità della Chiesa cattolica sull’isola, a stimolare la transizione – faticosa ma continua – sulla via dell’apertura economica all’ultraottuagenario presidente cubano, usando parole forti ma che oggi in molti fanno finta di non ricordare. Non secoli fa, ma nell’aprile del 2010, Ortega concesse una lunga intervista alla rivista diocesana Palabra Nueva, che fu letta con molta attenzione dai fratelli Castro: in quell’occasione il cardinale “strigliò” sia il presidente cubano che Barack Obama per le mancate riforme e i cambiamenti promessi quando entrambi, nel 2008, erano entrati in carica.
Una “lavata di capo” cui ne fece seguito un’altra, per mezzo di un articolo di Orlando Márquez, portavoce dello stesso Ortega, sempre sulla rivista della diocesi dell’Avana e dal titolo sin troppo chiaro, “Libertà e liberalizzazioni”. In sintesi l’Ortega pensiero – all’epoca rivoluzionaria, oggi de facto assimilato dai fratelli Castro era: o aprite, o c’è una forte possibilità che presto scorra il sangue sull’isola. Illuminante per analizzare quanto sta accadendo in queste ore (con un Papa che dopo Cuba parla per la prima volta nel Congresso USA), la chiusa di quell’articolo di Márquez/Ortega: “la nostra è un’epoca singolare, un’epoca in cui i capitalisti cinesi sono più che bene accolti dal partito comunista del loro paese mentre il governo degli Stati Uniti viene considerato ‘comunista’ per avere applicato formule di maggior controllo dello stato dell’economia”.
È questa l’ottica da cui partire per comprendere il viaggio di Francesco a Cuba, tra l’Avana, Holguín e Santiago. Chi oggi accusa da destra il Papa di essere stato “troppo cauto” e di non avere speso neanche una parola a favore dei dissidenti fa inevitabilmente venire in mente chi, come ad esempio l’argentino Horacio Verbinsky, in un passato recente ha accusato da sinistra l’allora provinciale gesuita Bergoglio di collusioni con la dittatura di Videla. E se prima il Papa veniva tacciato di essere di destra e fascista, oggi molti, soprattutto sui social network, gli danno del “comunista, ammiratore della teologia ‘marxista’ della Liberazione” (la citazione è di Frank de Varona, analista repubblicano). Di sicuro è gesuita ma, per il resto, se proprio si vuol dare una connotazione politica a Jorge Mario Bergoglio lo si potrebbe definire più correttamente un peronista, come ben scrive Marcelo Larraquy nel suo libro “Pregate per lui”. Il che, come spiega la storia politica dell’Argentina, sfugge alle tradizionali categorie ideologiche destra-sinistra. Peronisti si considerano infatti sia i Kirchner (Cristina, e prima di lei Néstor) che Carlos Menem – cioè tutti i recenti leader del paese.
Sia chiaro: sono lecite alcune osservazioni scomode, come sostenere che “Papa Francesco si è interessato a parlare con gli oppressori e non con gli oppressi” – lo ha fatto il blogger e dissidente cubano Yusnaby Pérez –, o porsi una domanda sul regalo donato al Santo Padre da Raúl Castro, cioè un crocefisso fatto con remi di legno – “saranno i remi delle migliaia di ‘balseros’ morti in mare?”, si è chiesto lo stesso Pérez.
Sono lecite perché è chiaro a tutti che quella cubana, al pari della cinese, è e rimane una dittatura se è vero che centinaia di dissidenti vengono preventivamente “messi ai domiciliari” per tutti i grandi eventi ospitati sull’isola – anche nei tre giorni papali è stato così – per evitare qualsiasi contatto tra ospiti illustri e chi si batte perché nasca qualcosa che politicamente affianchi il todo poderoso PCC, il partito comunista cubano.
È però altresì vero che, pur essendo stato ospite del regime (come lo furono prima di lui Giovanni Paolo II e Benedetto XVI), il pontefice ha soprattutto voluto rappresentare il nuovo ruolo politico che la Chiesa cattolica si sta ritagliando nelle Americhe. Oggi, infatti, la mediazione del Vaticano è centrale non solo negli sviluppi dei rapporti USA-Cuba ma anche nei dialoghi di pace tra governo colombiano e FARC per porre fine alla guerriglia più antica dell’America latina. Ed è rilevante anche nell’altro possibile ginepraio regionale, ovvero in Venezuela, dove il prossimo 6 dicembre si vota per il rinnovo del parlamento e la polarizzazione politica, abbinata alla tremenda crisi economica, potrebbe sfociare nel sangue a detta di più di un analista. Non è un caso che, per affrontare queste spinose questioni, il primo Papa sudamericano ha scelto come suo segretario di Stato l’ex nunzio apostolico a Caracas, Pietro Parolin, che conosce le problematiche venezuelane meglio di chiunque altro.
Rimangono le polemiche sul presunto disinteresse papale alla mancanza di democrazia a Cuba. Rispetto all’inizio della revolución, oggi chi si oppone al regime cubano non finisce più al paredón, al muro fucilato, ma al di là degli insulti che riceve dalla polizia politica – i dissidenti vengono chiamati gusanos, vermi – e all’isolamento cui è costretto dal regime, sempre più spesso può esprimere le proprie idee tramite i social network e sovente viaggiare all’estero. È ancora troppo poco, certo, ma la speranza di Papa Francesco e di Obama, che su questo convergono nell’analisi, è che con l’apertura economico-culturale arrivino anche rispetto dei diritti umani e pluripartitismo.
“Alzare ponti ed abbattere muri” è il leitmotiv che ha accompagnato Bergoglio a Cuba e – assieme alla tematica della protezione dell’ambiente e dei controlli da imporre su una finanza speculativa che ha stravolto il capitalismo produttivo – lo accompagna anche nella visita agli Stati Uniti.
Del resto, per quasi 55 anni gli USA hanno cercato di riportare la democrazia a Cuba usando un modello, quello dell’embargo, che non ha funzionato. Parafrasando Einstein e citando Obama, “follia è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi, per cui adesso proviamo a cambiare”. Per questo motivo, invero assai semplice, il presidente ha deciso di seguire la strategia vaticana del cardinal Ortega, che da quando Papa Francesco è assurto al soglio di Pietro ha subito un’ulteriore accelerazione. E non è affatto un caso che, dopo avere visitato Cuba, Bergoglio sia volato a Washington a parlare proprio con Obama. Poi andrà anche all’ONU e i risultati concreti, se ci saranno, li conosceremo probabilmente solo tra qualche anno. Ma nessuno stupore se in un’epoca senza più ideologie “ferree”, un’epoca “anomala”, anche Cuba in un futuro prossimo diventerà un po’ più “capitalista” e gli States un po’ più “socialisti”.