Allo scoppio delle rivolte nel mondo arabo la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan è stata dipinta come il più promettente modello di sviluppo democratico dei contesti in questione. Data la coesistenza di valori conservatori e liberali, le premesse di riconciliazione tra modernità e religione, e i sinceri sforzi per una maggiore integrazione regionale, in linea con i principi democratici e capitalisti dell’attuale amministrazione dell’AKP, la Turchia si sarebbe dovuta ergere a fonte di ispirazione per quei vicini che non versavano in buone acque. Inoltre, i legami con i movimenti anti-establishment del mondo arabo non sembra aver beneficiato l’AKP sul piano internazionale, e gli è forse costato dei consensi anche a livello interno. L’evolversi delle dinamiche regionali, in particolare riguardo i recenti sviluppi in Egitto e in Siria, e i deficit democratici interni al Paese hanno così finito per avere un caro prezzo.
In effetti, proprio gli eventi regionali hanno innescato un rinnovato attivismo sociale e politico interno al Paese. Per la prima volta nella storia della moderna Repubblica di Turchia il Medio Oriente è stato trattato come una issue di politica interna. I media hanno rapidamente iniziato a trasmettere in lingua araba ed è emerso un apparato professionale in grado di comunicare con il mondo arabo e di trasferire know-how verso quei contesti politici più sensibili al cambiamento. Simultaneamente si è registrata un’intensa interazione tra funzionari pubblici, ONG, università, imprenditori e gente comune. Inoltre, la Turchia è diventata il riparo delle diaspore arabe, come è avvenuto nel caso del movimento d’opposizione siriano che proprio oltreconfine ha trovato sostegno nella creazione di un fronte comune contro Assad. Ad oggi i rifugiati siriani registrati sul territorio turco sono quasi 500.000, e il governo Erdoğan ha investito nel 2013 più di un miliardo di dollari, ossia circa il 0.15% del proprio prodotto nazionale, in progetti di sostegno umanitario.
Due considerazioni hanno dunque riavviato quel processo democratico che era da tempo stagnante, segnando un vero turning point nella storia politica della Turchia: l’accresciuta consapevolezza che le scelte domestiche hanno dirette ripercussioni internazionali, e la constatazione che il soft power necessita di una costante legittimazione interna. Il timore di un effetto spillover proveniente dalla deflagrazione del contesto politico siriano, e il tentativo di prevenire un irredentismo pan-curdo nella regione, sono state le linee guida dell’apertura democratica nei confronti dei curdi. Il ritiro delle forze separatiste curde dai territori è la pietra miliare del compromesso storico tra il governo turco e il leader del PKK (Partito Curdo dei Lavoratori), Abdullah Öcalan – il quale durante le celebrazioni di Nevruz dello scorso marzo ha pubblicamente esortato i suoi seguaci a deporre le armi e a ritirarsi oltreconfine, marcando cosí “l’inizio di una nuova era”. In questo processo Ankara ha trovato un partner fidato nel Kurdistan iracheno di Massoud Barzani che, data la sua inclinazione sunnita e la sua favorevole posizione geostrategica, rappresenta l’unica opzione percorribile per scongiurare il pericolo di un ostile asse PKK-PDY (Partito Curdo Siriano dell’Unione Democratica) nella definizione delle dinamiche regionali.
Sebbene il processo di pace sia coinciso con numerose misure di confidence building, incluso il lancio di un pacchetto di riforme giudiziarie e il conseguente rilascio di alcuni attivisti in attesa di giudizio, ad oggi le opzioni per la soluzione della questione e per un sostenibile sviluppo economico e sociale del sud-est anatolico sono ancora sul tavolo e restano da superare difficoltà e resistenze. La ripresa dello zelo riformatore è poi stato sigillato dalla storica messa al bando del divieto di indossare il türban negli spazi pubblici. Nonostante nella prassi si sia registrata da tempo una certa benevolenza e tolleranza verso i simboli religiosi, la questione ha una forte carica simbolica perché incarna quel problema di fiducia sociale e politica che per lungo tempo ha cristallizzato la profonda polarizzazione interna al Paese tra devoti musulmani ed establishment secolare.
Avendo sperimentato una vera propria nemesis nel ribilanciamento dei rapporti con l’élite di Stato, la leadership dell’AKP si mostra molto sensibile ai casi di ingerenza nei confronti di governi legittimamente eletti: questo spiega l’aspra condanna di Erdoğan alla deposizione del presidente Mohamed Morsi in Egitto, che ha provocato una profonda frattura tra i due Paesi, contribuendo alla solitudine della Turchia nello scacchiere regionale e al sostanziale fallimento della dottrina di “zero problemi con i vicini”. Quello che una volta era percepito come il maggior beneficiario delle rivolte arabe in termini di leadership regionale, oggi è un attore solitario il cui soft power non è stato chiaramente all’altezza delle ambizioni di politica estera.
Nonostante i parallelismi con Piazza Tahrir o con Damasco non siano calzanti, la breve ma drammatica primavera vissuta anche dalla Turchia nel corso del 2013, segnata dalle proteste antigovernative di massa a Gezi Parkı e in molte parti del Paese, ha portato alla luce i nodi della di una gestione eccessivamente autoritaria degli affari pubblici. I fermenti di piazza hanno dimostrato una sostanziale presa di coscienza della società civile turca, sicuramente molto più vibrante e partecipe rispetto al passato. L’uso eccessivo della forza nel disperdere i protestanti dimostra l’urgente necessità di dialogo tra il governo e tutti i settori della società e di un’elaborazione inclusiva dei processi decisionali e di attuazione delle politiche: si tratta di un passo essenziale per l’effettivo consolidamento democratico del Paese.
Senza dubbio, la mancanza di un dibattito collettivo riflette la natura carsimatica del leader che con la crescita della sua popolarità ha reso la politica turca una sorta di one man show. Inoltre, inciampando nel dichiarato tentativo di applicare le scelte politiche definendole secondo parametri morali, gli ultimi anni di gestione dell’AKP hanno contribuito ad esasperare le divisioni a livello sociale.
Quella guidata da Erdoğan è sicuramente una Turchia in trasformazione, la cui forza sta nella durata dell’assetto istituzionale e nella persistenza dei legami con l’Occidente. Queste sono le condizioni necessarie perché il processo democratico sia irreversibile, ma non sufficienti se il pragmatismo politico è finalizzato principalmente alla vittoria elettorale e all’espansione del controllo politico sulla società. Senza un effettivo pluralismo nel sistema politico turco, infatti, non è possibile per Ankara svolgere un durevole ruolo-guida nella regione. E, nonostante i difficili trascorsi del rapporto con Bruxelles, l‘ancoraggio all’Europa rimane imperativo. Dopo tre anni di stallo nei negoziati di adesione e le relative frizioni (sia diplomatiche che al livello dell’opinione pubblica turca), il nuovo spirito riformatore di Ankara è stato ben accolto da Bruxelles con l’apertura di un nuovo capitolo negoziale (il numero ventidue sulle politiche regionali). È un dato positivo, che rivela un’acquisita consapevolezza delle potenzialità ma anche dei limiti dell’influenza regionale della Turchia.