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Il “nuovo” Egitto, il Sinai e il Trattato di pace con Israele

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La giunta militare che governa l’Egitto ad interim dalla cacciata di Hosni Mubarak non ha dimostrato di voler rivoluzionare i grandi orientamenti di politica estera del paese, ma soltanto di voler cancellare le decisioni più contestate dell’ex dittatore. Tra le misure più invise dell’era Mubarak vi è la chiusura del valico di Rafah con la striscia di Gaza e la sospensione di qualsiasi relazione diplomatica con l’Iran.

I militari e il primo governo transitorio hanno voluto andare incontro alle richieste della popolazione, che ritiene principi essenziali la solidarietà con il popolo palestinese della striscia e buone relazioni diplomatiche con tutti i paesi islamici, incluso l’Iran. Lo hanno fatto però con prudenza, respingendo l’ipotesi più radicale una revisione del Trattato di pace di Camp David con Israele. Si è anche cercato di non attirare l’attenzione sul fatto che le riunioni di coordinamento sulla sicurezza tra le autorità militari dei due paesi proseguissero regolarmente, come anche le esportazioni egiziane di gas naturale attraverso il Sinai verso Israele. La giunta militare ha fornito al governo israeliano forti garanzie sul proprio impegno nell’adempimento di tutti gli accordi precedentemente siglati tra le parti. L’unica innovazione, come il raddoppio dei 750 uomini stanziati nel Sinai, tra forze di polizia e militari, è avvenuta con il preventivo consenso israeliano.

Israele non ha peraltro molto da temere dalla riapertura del valico di Rafah, annunciata da un discorso roboante di Nabil al-Arabi, ex ministro degli Esteri nel governo di transizione di Essam Sharaf al potere fino al giugno scorso. La decisione è stata inizialmente salutata dalla popolazione palestinese come una svolta epocale, ma le autorità egiziane hanno infatti dimostrato di voler continuare a controllare i flussi di persone e di merci in uscita dalla striscia di Gaza, e soprattutto i traffici nei tunnel scavati dai miliziani per importare armi, che preoccupano l’Egitto tanto quanto Israele.

Il vero problema non è, quindi, costituito da un cambiamento sostanziale nell’indirizzo politico imposto dal “nuovo corso” in Egitto, ma semmai da spinte interne che agiscono in modo indiretto. La prima è strettamente locale: dalla rivoluzione, gli abitanti della penisola del Sinai hanno cominciato a protestare contro le autorità centrali del Cairo per lo stato di sottosviluppo, disoccupazione e degrado in cui versa la provincia. Dato il controllo molto blando da parte delle autorità militari, impegnate in questi mesi soprattutto nella capitale, nella penisola si sono infiltrati militanti jihadisti, salafiti e di al Qaeda, alla ricerca di regioni instabili in cui impiantare una base logistica per operazioni principalmente contro Israele.

Tali gruppi avrebbero attaccato con granate (per ben cinque volte, l’ultima il 31 luglio) il gasdotto del Nord del Sinai, che rifornisce di gas naturale sia Israele che la Giordania. Non si sarebbero, però, limitati a sabotare gli impianti industriali e le infrastrutture, ma anche a colpire le stazioni di polizia e le caserme, causando in totale almeno sette morti.

Questi episodi di instabilità nel Sinai hanno portato il governo egiziano ad adottare tre misure. La prima riguarda un maggiore dispiegamento di unità militari e di artiglieria pesante nella penisola; un passo concordato con Israele, che vi ha acconsentito in maniera permanente per la prima volta dal 1979 (aveva già autorizzato un rafforzamento temporaneo nel 2007, quando Hamas aveva assunto il potere a Gaza). La seconda misura riguarda l’avvio di un’operazione militare (Operazione Aquila), per riportare l’ordine nella provincia e garantire la sicurezza del gasdotto. Infine è stata istituita un’Authority per lo sviluppo del Sinai con il compito di incrementare gli investimenti e lo sviluppo economico dell’area. Il governo ha anche annunciato che nel piano di recupero del Sinai è prevista l’istituzione di una succursale dell’università e condizioni agevolate per l’acquisto di terre per le popolazioni locali beduine e altri privati.

In questo quadro parzialmente innovativo, le relazioni diplomatiche tra il Cairo e Gerusalemme sono tese. La maggioranza dell’opinione pubblica egiziana si è sempre dimostrata fredda nei confronti del Trattato di pace di Camp David, dal quale non è mai scaturito un potenziamento dei contatti culturali, economici o turistici. Molti ritengono poi che alcune clausole del Trattato, come il limite posto al dispiegamento delle forze militari nel Sinai, penalizzino la sovranità egiziana, e che l’accordo per la fornitura di gas naturale non si attenga a prezzi di mercato e sia stato negoziato a condizioni vantaggiose per Israele (non a caso, proprio le clausole “inique” del Trattato costituiscono uno dei capi di accusa nel processo in corso a carico dell’ex presidente Mubarak).

L’incidente avvenuto lo scorso 18 agosto, con l’uccisione da parte delle forze israeliane di cinque poliziotti egiziani, complica ulteriormente le relazioni bilaterali: l’episodio dimostra lo sconfinamento dell’esercito israeliano in territorio egiziano senza l’autorizzazione preventiva delle autorità militari del Cairo, e in ogni caso le scuse ufficiali di Israele (per bocca del ministro della Difesa Ehud Barak) sono arrivate tardivamente e soltanto dietro pressioni americane. Non può sorprendere, pertanto, la decisione ventilata da più parti – tra cui alcuni candidati presidenziali come Amr Moussa, Hesham Bastawesy e Hamdeen Sabahi – di richiamare l’ambasciatore da Tel Aviv in segno di protesta. Si sono inoltre registrate manifestazioni spontanee di migliaia di persone di fronte all’ambasciata israeliana, senza che le autorità egiziane intervenissero anche quando un giovane si è arrampicato per 13 piani rimuovendo la bandiera israeliana dal tetto.

L’altro dato significativo e preoccupante è la scarsa sensibilità mostrata dal governo israeliano a seguito dell’incidente del 18 agosto: sotto la spinta delle rivoluzioni democratiche, è ormai indispensabile tenere conto degli umori delle opinioni pubbliche arabe perché queste hanno un’influenza maggiore sui propri governi rispetto al recente passato. In particolare, anche la morte di un soldato può diventare un caso politico che sfugge al pieno controllo delle autorità. Su questo sfondo, potrebbe verificarsi una situazione paradossalmente vantaggiosa per Israele, se il suo rifiuto di emendare alcune clausole del Trattato di pace permetterà in effetti alle forze egiziane di assicurare un maggiore controllo nel Sinai – incluse le forniture di gas, i valichi di frontiera e le mete turistiche tradizionalmente frequentate dagli israeliani. È anche in gioco il completamento della nuova barriera elettrizzata attualmente in costruzione lungo il confine, che richiede la collaborazione (almeno tacita) tra le due parti.

Allo stesso tempo, la rinuncia alla clausola di demilitarizzazione del Sinai guadagnerebbe alle autorità egiziane una quota di prestigio presso la propria opinione pubblica, spendibile (di nuovo, paradossalmente) anche nel miglioramento delle relazioni israelo-egiziane.

Ciò che il governo Netanyahu deve capire è che facilitare le relazioni tra i governi arabi e le loro opinioni pubbliche non significa mettere a repentaglio la sicurezza di Israele, ma aiuterebbe invece a perseguirla nel lungo periodo. La giunta militare egiziana ha già dimostrato di non voler abrogare il Trattato e di voler rispettare gli accordi preesistenti; ora tocca a Gerusalemme accettare il fatto che il nuovo Medio Oriente richiede nuove regole del gioco, tra cui una maggiore attenzione per le reazioni delle “piazze arabe”. Emendare il Trattato vorrebbe dire, in quest’ottica, “aggiornarlo” e rapportarlo a una situazione in cui non sussiste più il rischio di un confronto militare diretto tra i due paesi. E non c’è dubbio che un maggiore coordinamento in materia di sicurezza potrebbe giovare a entrambe le parti.