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Il nuovo corso di Riad: tra proclami e guerre difficili

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Alla fine del 2015, l’Arabia Saudita ha annunciato la creazione di una coalizione islamica per combattere il terrorismo. Della coalizione dovrebbero fare parte ben 34 paesi della regione e il suo obiettivo principale è la lotta a gruppi terroristici, ISIS in primis ma non solo, che operano nella regione – in particolare in Iraq, Siria, Egitto, Afghanistan. Da questa alleanza, che avrà il quartiere generale a Riad, sono esclusi Iran e Iraq, ai quali non è stato esteso l’invito.

Come causa diretta dell’iniziativa saudita, bisogna considerare la crescente attività terroristica sul territorio nazionale. Nel regno si sono verificati attentati tanto nella provincia orientale di Al-Ahsa a maggioranza sciita, con bombe fatte esplodere all’uscita delle moschee, quanto ai confini con lo Yemen contro forze di polizia e sicurezza saudita nell’estate e autunno del 2015. Lo sforzo, politico-diplomatico e militare, da parte della leadership saudita si inserisce in una prospettiva più ampia, sia a livello interno che regionale. Da un lato, infatti, fin dalle rivolte arabe del 2011 Riad ha cercato di rafforzare il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG, che comprende Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrain, Oman, Yemen, Kuwait e Qatar), dal punto di vista del processo di integrazione sia politica sia militare. Inizialmente si era parlato anche di allargare il CCG a monarchie sunnite non del Golfo, come Giordania e Marocco, senza però che queste dichiarazioni di intenti si traducessero in realtà.

Alcuni paesi membri, anche di recente, hanno espresso un atteggiamento cauto per quanto riguarda processi di maggiore integrazione del Consiglio. L’Oman, ad esempio, vede in queste politiche un doppio pericolo: un rafforzamento saudita, con conseguente diminuzione dell’autonomia degli stati più piccoli, e un aumento del confessionalismo come fattore cruciale per giustificare le azioni di politica estera.

Per quanto riguarda gli affari interni, dalla morte del re Abdallah nel gennaio 2015, il cambio di leadership saudita, con un salto generazionale verso i nipoti del fondatore Ibn Saud, ha portato ad almeno due conseguenze immediate: da un lato, un nuovo corso di politica estera, molto più assertiva a livello regionale, inaugurata dal figlio di Salman, il principe Mohamed Bin Salman, Ministro della Difesa e artefice della guerra in Yemen; dall’altro, l’emergere di divisioni e tensioni all’interno della famiglia reale saudita, nella quale diversi membri esprimono forte preoccupazione per le effettive capacità strategiche del re Salman di condurre il paese fuori da una serie di sfide economiche e strategiche di ampia portata.

Le critiche – più o meno esplicite – provengono da quella parte della famiglia reale saudita esclusa dalla successione al trono nel passaggio da Abdallah a Salman, che ha operato un rimpasto sostanziale nelle cariche di governo a favore dei suoi figli e discendenti. Le voci sulla presunta malattia del re Salman insinuano che il figlio sia l’effettivo custode del palazzo. L’appena trentenne Mohamed bin Salman, oltre a coprire il ruolo di Ministro della Difesa, segue le vicende di Aramco(la compagnia energetica nazionale) ed è è il capo del consiglio per gli affari economici, che ha poteri di controllo sull’azione di tutti i ministeri e presiede il fondo di investimento del regno.

L’Arabia Saudita nella sua attuale configurazione è stata creata nel 1932 dal re Abdelaziz Ibn Saud: dalla sua morte nel 1953, il paese è stato governato dai suoi figli ma questo cambierà alla morte dell’attuale re Salman, quando il Principe Mohammed bin Nayef dovrebbe salire al trono. Le due nomine, di Bin Nayef e di Bin Salman, sembrano così aver provocato malumori  non solo per una questione di linee di successione, ma anche nel merito di scelte politiche economiche e strategiche considerate poco prudenti e di rottura con la tradizionale politica estera saudita.

Le sfide economiche sono legate anzitutto al petrolio: si teme infatti che il continuo abbassamento del prezzo, sui cui si basa il 90% delle entrate saudite, da 120 a 50 dollari nel corso del 2015, causi un deficit fiscale crescente e sempre meno sostenibile. L’anno scorso, la riduzione del 20% delle entrate è stata compensata dal ricorso alle riserve valutarie, per mantenere la spesa corrente costante. Solo nella prima metà del 2015, il governo saudita ha speso il 10% del totale delle proprie riserve (per oltre 80 miliardi di dollari). Di questo passo, alcuni analisti hanno stimato in due-tre anni il periodo nel quale il governo saudita rischia di esaurire le riserve, scese nella seconda metà del 2015 a 650 miliardi di dollari. Bin Salman ha di recente confermato che entro il 2016-2017 verrà introdotta l’imposta sul valore aggiunto su alcuni beni di consumo (ma non di prima necessità), mentre ha escluso che possano essere adottate tasse sul reddito o i patrimoni.

La politica estera saudita è il secondo fronte su cui si manifestano dubbi e preoccupazioni sia all’interno della famiglia reale che sul piano internazionale. Dal 2015 infatti, alla tradizionale azione per limitare l’influenza della Fratellanza Musulmana nella regione, favorendo gruppi salafiti in tutti i paesi in cui ciò era possibile, si è andata rapidamente sostituendo una postura strategica aggressiva per contrastare quella che viene percepita come la crescente influenza iraniana nel Golfo, sia essa in Bahrain, che nelle province orientali saudite a maggioranza sciita che, soprattutto, in Yemen. Lo sforzo saudita in Yemen si è concentrato sulla lotta agli Houthi (la minoranza sciita sostenuta da Teheran), con un’azione militare iniziata nel marzo 2015 per assicurare la presidenza di Abd Rabbih Mansur Hadi, il Presidente deposto circa un anno fa (ma tuttora riconosciuto dalla comunità internazionale), e contrastare qualsiasi prospettiva di disintegrazione territoriale.

Sembra quindi scontato che anche dietro la nuova coalizione arabo-sunnita, in realtà, i target da colpire verranno selezionati tenendo conto in primo luogo della loro affiliazione confessionale, privilegiando quelli sciiti o alleati con Tehran. È però probabile che si tratterà soprattutto di intelligence-sharing e qualche azione coordinata, ma difficilmente Riad riuscirà a convincere e organizzare azioni estese in teatri lontani (come il Nord Africa).

Il precedente yemenita, inoltre – un’azione intrapresa con slancio dall’Arabia Saudita e considerata una sorta di Blitzkrieg, che si sta invece trascinando da quasi un anno – è ben presente come promemoria della difficoltà di contrastare efficacemente forze locali sostenute da attori esterni in condizioni di “guerra asimmetrica”. È probabilmente già diminuita, soprattutto da parte degli alleati di Riad, in primis Emirati Arabi, la voglia di intraprendere avventure militari non ben calibrate in luoghi distanti e in condizioni molto difficili.

Secondo le ultime notizie, l’Arabia Saudita si starebbe preparando a intervenire con truppe di terra in Siria contro l’ISIS, unendo le sue forze speciali a quelle della Turchia – Paese con cui sta intensificando la cooperazione militare e con cui condivide la priorità di far cadere Assad. Questa azione avverrà all’interno della coalizione a guida americana (e che comprende 65 nazioni) creata nell’autunno del 2014. Tuttavia bisogna tenere presente che nell’ottica di crescente polarizzazione settaria incentivata da Riad, il nemico principale, in qualsiasi guerra di procura, è l’alleato di Teheran – in questo caso Assad. L’ISIS, dunque, resta un bersaglio, nella migliore delle ipotesi, solo secondario.