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Il nodo dell’immigrazione nell’America di Obama

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In una nazione d’immigrati come l’America, il periodico riemergere di ipotesi di riforma delle politiche sull’immigrazione – nella scena politica e nel dibattito pubblico – travalica l’ambito istituzionale. Il tema alimenta aspre discussioni, e non di rado violente convulsioni, attorno all’idea stessa di identità nazionale. È stato così anche nelle settimane successive alle elezioni di medio termine del novembre 2010: prima con l’affossamento del Dream Act (che prevedeva la regolarizzazione selettiva di giovani immigrati irregolari che avessero servito nelle forze armate o frequentato l’università per almeno due anni) nella cosiddetta lame duck session da parte dei senatori repubblicani; e poi con la strage di Tucson, in quell’Arizona che da diversi mesi è l’epicentro di un acre conflitto politico e istituzionale sul contrasto all’immigrazione irregolare. Episodi ovviamente assai distanti tra loro, che tuttavia convergono nel tratteggiare un quadro a tinte fosche. Da un lato, il tentativo da parte di Barack Obama di trascendere la iper-partisanship del decennio precedente, per introdurre uno stile politico al contempo pragmatico e visionario, si sta rivelando fino a questo momento fallimentare. Dall’altro, l’instabile coabitazione all’interno del GOP tra establishment di partito e Tea Party appare formidabile come macchina di consensi, ma incapace di esprimere una vision positiva e un’agenda legislativa che vadano oltre l’opposizione incondizionata a Obama e sappiano contenere il crescente fermento della destra estrema.

Ripercorrere la traiettoria nell’ultimo decennio dei tentativi di riforma della legislazione sull’immigrazione, che è materia eminentemente federale, è utile a cogliere la portata della crisi attuale, e le difficoltà che rendono improbabile una riforma condivisa entro il 2012.

Era stato George W. Bush nel 2004 a lanciare la proposta di un “guest worker program” di durata triennale con l’obiettivo di regolare l’afflusso di manodopera straniera, quasi esclusivamente centro-americana, che sull’onda dell’espansione economica degli anni novanta stava portando a un forte aumento degli immigrati irregolari (stimati a 11.9 milioni nel 2008). La contrazione della crescita economica e la diffusa ansia in tema di sicurezza del post-11 settembre si erano intrecciate con la crescente insofferenza in stati di vecchia e nuova immigrazione (Arizona, Georgia): si tratta di quella Sun Belt che dai primi anni settanta è saldamente in mani repubblicane. Ma alle origini di questa iniziativa vi era anche la buona immagine e il discreto grado di consensi che Bush aveva costruito come governatore del Texas tra la comunità ispanica – il gruppo demografico più direttamente chiamato in causa (si stima che gli ispanici costituiscano l’80% degli irregolari). Tuttavia Bush non investì molto del suo capitale politico su questa proposta, che non ebbe seguito, così come non sono stati risolutivi i più o meno ambiziosi tentativi di riforma che si sono succeduti in Congresso nel secondo mandato del presidente texano. Nel 2005 alla Camera i repubblicani ottennero l’approvazione di misure restrittive, la più nota e controversa delle quali fu la costruzione di un muro di centinaia di chilometri lungo la frontiera con il Messico. L’anno dopo il Senato, grazie all’iniziativa bipartisan di John McCain e Ted Kennedy, riprese l’ipotesi del “guest worker program” accompagnata dalla possibilità, per parte degli irregolari, di ottenere la cittadinanza. Ma la notevole differenza tra i disegni di legge approvati dai due rami del Congresso era tale da impedire una sintesi, e l’unico risultato concreto fu la costruzione di 700 miglia di muro e un aumento delle espulsioni (350.000 nel 2008). Troppo poco per la destra repubblicana e i gruppi di vigilantes degli stati del Sud-Ovest; e decisamente troppo per le organizzazioni per i diritti civili, parte importante dell’associazionismo religioso, e per la comunità ispanica.

Anche per questo il voto latino alle presidenziali del 2008 andò a Obama (67%, rispetto al 53% per John Kerry nel 2004), risultando cruciale in diversi swing states. In campagna elettorale Obama si era impegnato per una riforma complessiva del sistema in senso inclusivo, e dopo l’elezione ha nominato in posti chiave del gabinetto due sostenitrici della riforma come Janet Napolitano (Homeland Security) e la californiana di origine messicano-nicaraguense Hilda Solis (Labor). Ma l’estrema polarizzazione del dibattito sulla riforma sanitaria da un lato, e l’aumento della disoccupazione causato dalla recessione dall’altro, hanno contribuito a creare immediatamente un ambiente ostile alla riforma. Il presidente ha così scelto la strada dell’accordo con il GOP per un obiettivo parziale: rafforzamento dei controlli sui luoghi di lavoro e ai confini con il Messico per “sigillare la frontiera” in cambio della regolarizzazione selettiva prevista dal Dream Act e di miglioramenti delle condizioni di vita nei centri di detenzione per irregolari. Questi ultimi sono finiti spesso nel mirino delle associazioni per i diritti civili: clamoroso il caso del “T. Don Hutto Residential Center” di Austin, in Texas, denunciato dalla American Civil Liberties Union. 

È in questo quadro che l’Arizona, uno stato storicamente “di frontiera”, ha assunto l’iniziativa – lo scorso aprile – dell’approvazione di una legge assai controversa, la SB 1070. Essa, tra le altre cose, dà mandato alla polizia locale di controllare, ed eventualmente arrestare in quanto irregolari, immigrati che pur non avendo commesso reati appaiano “ragionevolmente sospetti”. La reazione a questa svolta restrizionista, che trasformerebbe l’immigrazione illegale da reato civile federale a reato penale statale, è stata molto forte e diffusa, tanto da prefigurare ipotesi di boicottaggio economico contro l’Arizona (ad esempio da parte della città di Los Angeles). È riesplosa la polemica sul racial profiling, cioè la tendenza delle forze dell’ordine a effettuare le loro operazioni di controllo scegliendo i loro obiettivi su base razziale. E soprattutto l’amministrazione, attraverso un ricorso del Dipartimento della Giustizia, ha bloccato la legge contestandone la costituzionalità. Ma, come era prevedibile, la reazione di Washington contro un provvedimento piuttosto popolare anche al di fuori dell’Arizona – secondo vari sondaggi quasi il 60% degli intervistati è favorevole – ha, a sua volta, radicalizzato lo scontro. I sostenitori delle politiche restrizioniste dentro e fuori il partito repubblicano hanno avuto buon gioco ad appropriarsi dell’ideologia mai sopita degli states rights e della resistenza “patriottica” all’intrusione liberticida del governo federale, trovando così un collante con altri ambienti della destra populista. Nel frattempo, altri undici stati dell’Unione stanno prendendo in considerazione leggi ispirate a quelle dell’Arizona, mentre i falchi della linea anti-immigrazione hanno alzato la posta e ora contestano il dettato costituzionale – basato sul XIV emendamento – che garantisce la cittadinanza a tutti coloro che sono nati in territorio americano.   

Non sorprende, in questo quadro, la bocciatura del Dream Act nel voto dello scorso dicembre, abbandonato da sostenitori della prima ora come McCain, ma affondato in Senato anche da cinque democratici. È evidente la difficoltà dell’amministrazione Obama, che ha applicato con un certo zelo il bastone delle misure repressive contro gli irregolari – 390.000 espulsioni nel solo 2010 – ma si ritrova ora senza neppure la carota di percorsi selettivi di regolarizzazione. E che, d’altra parte, deve fronteggiare i malumori degli elettori liberal e della comunità ispanica, la cui importanza è in ascesa. Ora, con il nuovo Congresso appena insediatosi, il cammino della riforma appare più che mai impervio.