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Il “no” greco ai piani di Bruxelles

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Ha delle proporzioni davvero inattese la vittoria del “no” (61,3%) al referendum indetto dieci giorni fa dal primo ministro greco Alexis Tsipras. Il risultato ha innanzitutto un merito: quello di costringere i protagonisti della lunga e snervante partita politico-strategica tra la Grecia e gli altri membri dell’eurozona a fare ora delle mosse più rapide, più chiare, più evidenti.

Non c’è dubbio infatti che questa sarà una settimana decisiva per l’Unione Europea e per la sua moneta, nella quale le dimissioni di Yanis Varoufakis non saranno di certo l’evento più clamoroso. Alla riapertura delle banche greche dopo la chiusura per decreto degli ultimi giorni, ancora nessuno sa esattamente quale sia il loro livello di liquidità: la decisione di estendere il contributo di salvataggio straordinario (ELA) spetta infatti ora alla Banca centrale europea.

Non a caso, Mario Draghi è stato tra i primi a essere contattato da Tsipras dopo il voto. Ma già durante l’intensa campagna elettorale, lo stesso Fondo monetario internazionale aveva ammesso l’inevitabilità di una dilazione del debito, aprendo la via negoziale alla ristrutturazione a lungo richiesta da parte greca. L’istituto guidato da Christine Lagarde si smarcava così dalla posizione di “falco”, di irriducibile, di ostacolo al compromesso che gli era stata cucita addosso negli ultimi giorni delle trattative: sono altri i soggetti che dovranno intestarsi l’onere della “sconfitta” – o almeno di quella che ad oggi sembra tale.

Analizzare le diverse dimensioni della vittoria del “no” ci aiuterà a individuarli. Per prima cosa, naturalmente, il risultato referendario è una ruvida sconfessione della politica economica di Bruxelles e della sua ragione di essere: il rapporto di forza tra i ventotto stati dell’UE. Le pur diverse sfaccettature delle istituzioni europee e le varie posizioni al loro interno non hanno contato: è stato facile, per i fautori del “no”, ridurle tutte a un’unica, antidemocratica, entità.

E ben poco ha fatto la politica di Bruxelles per distinguersi, probabilmente presa di sorpresa dalla mossa di Alexis Tsipras e caratterizzata come sempre dalla proverbiale lentezza di riflessi. La sinistra tradizionale europea si è trincerata dietro al “no”, benché molta parte di essa, come i socialisti francesi, avesse molto lavorato per avvicinare le posizioni negoziali. Intanto, dagli Stati Uniti, la freddezza ufficiale della Casa Bianca era in qualche modo bilanciata da alcune prese di posizioni favorevoli al “no” da parte di opinion leader vicini al Partito democratico come Paul Krugman.

Fatto ben più degno di nota è che durante la campagna elettorale il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz (socialdemocratico tedesco) e il presidente dell’eurogruppo, cioè dei ministri dell’Economia dell’eurozona, Jeroen Dijsselbloem (laburista olandese), sono intervenuti parlando direttamente di sostituzione del governo Tsipras con uno tecnico in caso di vittoria del “sì”, e di uscita della Grecia dall’euro in caso di vittoria del “no”. La sinistra tradizionale europea si è dimostrata parte inscindibile del fronte dell’ortodossia di bilancio e della preferenza tecnocratica per le grandi coalizioni: è tra gli sconfitti di questo voto, al pari di Angela Merkel e del presidente della Commissione Jean-Claude Juncker che a questa visione danno la più forte impronta politica.

Non c’è però solo il fronte politico-economico a caratterizzare i rapporti di forza nel nostro continente. Una sconfitta di Bruxelles in uno dei membri dell’UE costituisce comunque una vittoria per la dimensione politica nazionale nei confronti di quella, appunto, sovranazionale e comunitaria. È questo un aspetto, per l’attuale forma dell’Unione Europea, forse ancora più grave del precedente; nel voto dei greci – ed era stato così già alle elezioni politiche di gennaio – c’è una componente significativa di orgoglio nazionale, che si esprime nella contrapposizione e nel rigetto di un “umiliante” commissariamento internazionale.

Non è naturalmente in nome del nazionalismo che Tsipras ha chiamato i greci a esprimersi sui negoziati condotti in questi mesi. Ma è un fatto che anche questo aspetto ha influenzato il comportamento degli elettori, e che tutta la destra nazionalista e antieuropea del continente esulta per un risultato che simboleggia una forte delegittimazione, da parte di “un popolo”, delle scelte delle istituzioni comunitarie.

Di uguale valore è il terzo elemento fondamentale della vittoria dei “no”. E cioè la sconfitta dei partiti legati alle antiche famiglie politiche continentali, dell’apparato mediatico a loro vicino, e del loro modo di rapportarsi con l’elettorato: il voto ha comportato le dimissioni del leader di Nuova Democrazia, il principale partito conservatore del paese, Antonis Samaras, schierato per il “sì”. Ha certificato la fine del partito socialista greco, il vecchio PASOK. Ha sancito l’incapacità di tv private e giornali – massicciamente dalla parte del “sì” – di influenzare l’opinione pubblica, al contrario sempre più decisa verso il “no” con il passare dei giorni. E ha invece rappresentato il successo della comunicazione istantanea, clamorosa, diretta, informale – individuale ed egemonica allo stesso tempo – tipica di SYRIZA e delle tante altre nuove (o rinnovate) forze politiche che proliferano in Europa proponendosi come alternative a un vecchio sistema.

La decisione di indire un referendum con una manciata di giorni di anticipo, senza che i partner europei e gli altri soggetti coinvolti ne fossero a conoscenza fino a pochi istanti prima, a quarantott’ore dalla fine prevista dei negoziati, su un testo non rappresentativo dell’accordo abbozzato durante la trattativa e sconfessato da tutti poco dopo, attiene più alla sfera della demagogia che a quella della democrazia, benché il verdetto delle urne meriti naturalmente il massimo rispetto. Ma Alexis Tsipras porta a casa una grande vittoria strategica, dal punto di vista interno.

Il suo partito, che gode di una maggioranza risicatissima al parlamento di Atene ed è una federazione di sigle di estrema sinistra raccolte intorno a un programma condiviso, rischiava la scissione. Molti infatti sono gli anti-euro – circa il 40-45% dei quadri e il 30% dei deputati – e molti anche gli insoddisfatti del governo: il rischio di una scissione al momento del voto sull’accordo con l’UE era molto alto. Il trionfo dei “no” perciò blinda la posizione di Tsipras come capo di SYRIZA e del governo, perché garantisce la sua fedeltà al programma elettorale radicale; e estende la responsabilità di un eventuale fallimento negoziale anche sui greci, che con il voto ora sostengono espressamente la posizione del loro capo del governo.

Le dimissioni di Varoufakis, detestato dagli altri ministri dell’eurogruppo, sono un gesto di inattesa disponibilità alla rapida riapertura (e conclusione, vista l’urgenza) delle trattative. Non è detto che ciò basti a garantire una loro serena ripresa: anche i rappresentanti degli altri paesi hanno la loro legittimazione democratica e i loro obblighi politici interni. Non saranno certo stati contenti di sentirsi chiamare vampiri, terroristi, affamatori di popoli com’è accaduto durante la campagna elettorale greca da chi fino a un attimo prima era seduto a discutere con loro; inoltre, molte delle opinioni pubbliche europee considerano il “no” dei greci come simbolo di indisponibilità a ogni riforma.

Si è detto a ripetizione che l’Unione Europea funziona male e che a forza di non correggerne i difetti la sua sopravvivenza sarebbe stata a rischio. Che non piace e non può piacere a un’opinione pubblica che non vi si sente rappresentata. Che la sua élite è incapace di esercitare una vera leadership, basata su vantaggi reciproci e non su costrizioni. Nell’attesa che queste condizioni strutturali cambino, le pressioni perché la scomoda Grecia esca dall’euro e dall’UE sono aumentate, e non diminuite: molti dei governi dell’eurozona non hanno alcuna intenzione di legittimare l’azzardo di Tsipras ai loro danni. Al premier greco tocca ora affrontare una battaglia ancor più complicata sul piano internazionale.