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Il momento della verità per la Scozia, e il contesto europeo

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Con il referendum del 18 settembre, il momento della verità è arrivato per la Scozia, e dunque per il Regno Unito – ma non si tratta di un caso isolato. Nella turbolenta Europa degli ultimi anni si sono moltiplicati o acuiti i conflitti interni agli Stati, basati sulle rivendicazioni delle cosiddette nazionalità minoritarie, che si sono espressi in modi diversi. Ne è un esempio l’oceanica manifestazione che ha riempito le strade di Barcellona nel giorno della festa nazionale (Diada dell’Undici Settembre) in vista del referendum di novembre che decida sul futuro politico della Catalogna.

In Belgio, un vuoto di potere durato mesi, a causa dell’impossibilità di formare una maggioranza per il governo federale proprio per le divergenze fra valloni e fiamminghi, ha congelato la questione del separatismo della regione settentrionale delle Fiandre. Ma alle ultime elezioni legislative e regionali di maggio, la netta vittoria dei nazionalisti fiamminghi ha riportato sul tavolo il dossier sulla possibile disintegrazione dello Stato belga proprio per le spinte secessioniste dell’area che ormai da decenni è la più ricca del paese.

Il caso più eclatante è certamente quello scozzese, assieme a quello catalano; anche perché, in qualche misura, i due processi si stanno influenzando a vicenda. Resta da capire fino a che punto si tratti di movimenti davvero paragonabili e quali effetti possano avere l’uno sull’altro.

A una prima osservazione superficiale, potremmo definirli come due separatismi quasi gemelli: si tratta infatti di territori a lunga tradizione nazionalista, che hanno già livelli di autogoverno piuttosto elevati (la Catalogna dal 1980, la Scozia dal 1997), e che ora, contemporaneamente, rivendicano la possibilità di costruire Stati separati. Un’altra similitudine fa riferimento all’atteggiamento europeo. In entrambi i casi non c’è stata la cosiddetta (e sperata) “internazionalizzazione” della controversia interna, ma la UE ha considerato le due questioni come affari strettamente interni alla Gran Bretagna e alla Spagna, senza intervenire se non per fare pesare la sua freddezza – presumibilmente a favore tacito dello status quo.

Ma le somiglianze si fermano qui. Scozia e Catalogna hanno sistemi politici molto diversi, che hanno avuto diversa influenza sui processi in corso. In Scozia, sebbene la centralità dei nazionalisti dello Scottish National Party (SNP) sia stata sempre più accentuata negli ultimi anni, il resto dell’arco politico è occupato da forze presenti in tutto il Regno Unito.

La Catalogna invece dispone di un sistema politico autonomo, differenziato e decisamente più frastagliato rispetto al resto della Spagna: vi sono due grandi forze nazionaliste – una di centrodestra e di centrosinistra, rispettivamente Convergència i Unió (CiU) ed Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) – più la sinistra estrema delle CUP, mentre il peso dei partiti statali (cioè nazionali spagnoli) è più contenuto. Il Partido Popular (PP) – forza di governo a Madrid – ha un ruolo quasi marginale; i socialisti, ora in caduta libera, sono comunque una formazione catalana dotata di forte autonomia dai “confratelli” del PSOE, dei quali sono molto di più di una federazione regionale. Anche la sinistra meno centrista, raccolta nella coalizione rosso-verde ICV-EUiA (pur senza avere una connotazione nazionalista) è autonoma dal resto della sinistra radicale spagnola.

C’è da dire poi che si riscontra una differenza sostanziale fra l’appeal esercitato dalla leadership del leader degli indipendentisti scozzesi, Alex Salmond, e quella del presidente catalano Artur Mas. Quest’ultimo non solo è alla guida di un partito che dal 1980 – da quando esiste il governo autonomo – ha governato per un totale di 27 anni, ma soprattutto sconta il prezzo dei casi di corruzione che lo hanno colpito il suo partito e le politiche di tagli volute dal suo gabinetto. Non a caso, nelle ultime elezioni europee, CiU è stata per la prima volta superata da ERC, col risultato di frammentare i riferimenti politici del mondo indipendentista.

E ancora, le due “regioni” hanno avuto e hanno un peso specifico molto diverso da un punto di vista economico, all’interno dei rispettivi paesi. La Scozia ex mineraria e industriale, dagli anni Ottanta in poi – quando le politiche di Margaret Thatcher svuotarono l’economia produttiva della Gran Bretagna in favore di un modello tutto giocato sulla finanziarizzazione dell’economia – ha vissuto un continuo e durissimo impoverimento, solo in parte palliato proprio dalle scelte del governo regionale, esistente dal 1997. Anche la Catalogna ha in effetti sofferto un duro processo di deindustrializzazione e ha perso nel corso degli ultimi decenni quelle caratteristiche che l’avevano resa “il motore della Spagna”, ma nonostante la grande crisi del 2008 resta una delle aree più prospere della penisola iberica.

Diverso anche il percorso con cui si è arrivati ai referendum: nel caso scozzese è il risultato di una chiara sfida elettorale dello SNP, raccolta dal governo centrale. Nel caso catalano invece, due sembrano essere stati i motori dell’impennata indipendentista: da un lato la frustrazione per la sentenza della Corte costituzionale spagnola che nel 2010 ha ridimensionato le prerogative del nuovo Statuto d’autonomia approvato nel 2006; dall’altro gli effetti della crisi economica, che ha colpito duramente le classi medie, vera e propria base sociale di un potente movimento popolare che solo in parte i partiti nazionalisti sembrano in grado di cavalcare.

Ci sono differenze importanti anche nei “discorsi politici” e nella retorica associati all’indipendenza. Nel caso scozzese l’approccio è chiaro e punta a fare della Scozia una specie di piccola Norvegia: riserve petrolifere del mare del Nord e difesa del welfare – non a caso uno dei grandi cavalli di battaglia dello SNP è stato il mantenimento del National Health Service. Il caso catalano è più complesso: il separatismo si nutre di rivendicazioni economiche e fiscali (uno degli slogan è “la Spagna ci deruba”), e della difesa dei diritti linguistici e culturali minacciati dalle politiche uniformiste del PP. Senza dubbio però, il discorso più forte e più condiviso (dai partiti politici, ma anche dalle organizzazioni della società civile) è stato quello della possibilità per i catalani di pronunciarsi con un voto sulla forma delle relazioni con la Spagna. La vera e propria negazione dell’esistenza di un problema catalano da parte del governo centrale e la sua indisponibilità a nuovi accordi (a differenza di quanto è avvenuto nel caso britannico, dove il governo di Sua Maestà ha comunque fatto una proposta di miglioramento dell’autogoverno), e l’attuale e generale crisi di rappresentanza del sistema politico, non hanno fatto che amplificare la forza dell’opzione di un referendum diretto.

Proprio quest’ultimo aspetto rende paradossalmente la questione catalana imprevedibile e molto più legata all’insieme delle vicende spagnole di quanto possa sembrare. In qualche modo, l’aumento dell’indipendentismo in Catalogna negli ultimi anni si può leggere anche come la rottura di una lealtà nei confronti di un sistema che aveva assicurato democrazia e soprattutto prosperità economica.

I risultati delle ultime elezioni europee, con la crisi di tutti i partiti tradizionali e l’apparizione di nuove forze politiche come il movimento Podemos (erede degli indignados, che ha conquistato cinque deputati a Bruxelles) fanno pensare che la voglia di un cambiamento radicale non sia soltanto una questione catalana. Almeno in parte, l’indipendentismo rappresenta una traduzione specifica di un malessere molto più generale, spagnolo, ma in definitiva anche europeo. In questo quadro, oltre alla mobilitazione della Diada, i risultati del referendum scozzese del 18 settembre e il passaggio del 9 novembre con il referendum catalano influenzeranno gli avvenimenti nel breve termine, ma probabilmente risolveranno ben poco in chiave strutturale.

La possibilità di convocare elezioni regionali anticipate nel caso in cui il governo di Madrid impedisca lo svolgimento del referendum, e soprattutto le elezioni municipali previste per la primavera del 2015 – che permetteranno alle forze in campo di contarsi di nuovo – saranno invece momenti decisivi. Insomma, della questione catalana continueremo a sentir parlare ancora a lungo. Lo stesso è probabilmente vero per il caso scozzese e gli assetti del Regno Unito.