Pochi mesi prima dell’incidente di Fukushima il cancelliere tedesco Angela Merkel aveva autorizzato il prolungamento della vita utile degli impianti nucleari presenti in Germania: il 28 novembre del 2010 era stato deciso di estendere l’operatività di alcune centrali costruite prima del 1980. Dopo Fukushima, in tempi ancora più stretti Merkel ha fatto approvare una risoluzione che cambiava rotta con inaspettata decisione: gli impianti più vecchi saranno chiusi in tutta fretta, ed entro il 2022 il paese dovrebbe uscire completamente dall’atomo. L’80% dei tedeschi, secondo i sondaggi, ha approvato la scelta.
La Germania da sempre rappresenta un modello per le scelte energetiche dei paesi europei. Il sistema industriale energetico è tra i più avanzati al mondo, con la presenza di un “oligopolio” di operatori di grandi dimensioni, in grado di offrire offerta diversificata e d’investire in innovazione e strategie. Soprattutto, questo sistema è stato in grado per anni di coordinare uno sviluppo organico del settore energetico, in uno stretto rapporto con la politica che ha accompagnato l’industria con politiche accorte. Alle volte, i governi sono arrivati a rischiare la propria popolarità, pur di soddisfare le necessità dell’industria energetica – e con esse di tutta l’economia. La scelta dell’abbandono nucleare segna però una direzione politica diversa dal passato – si preferisce ora recepire il sentimento popolare. Questa sensibilità, del resto, è caratteristica dello stile delle amministrazioni Merkel, tipicamente attente ai cambiamenti di umore dei cittadini. Tra tradizione industriale e flessibilità politica, ha prevalso il secondo aspetto.
La Francia, nonostante il confine in comune, è rimasta finora immune all’influenza tedesca sulle politiche energetiche. Il paese è un caso estremo di passione nucleare con oltre il 74% dell’energia nazionale proveniente dall’atomo, originata da un sistema di 58 reattori. Nonostante tale concentrazione, l’elettorato francese non sembrerebbe però particolarmente attratto dal nucleare: anche qui la maggioranza dei cittadini vorrebbe vedere ridotta l’esposizione del paese a questo tipo di tecnologia. Il presidente François Hollande ha inserito un timido piano “anti-nucleare” nel suo programma elettorale (con la riduzione della quota nucleare nel mix energetico al 50% entro il 2025), ma da quando è arrivato all’Eliseo, nel maggio 2012, sembra essersi fatto ancor più timido: è stato deciso solo di chiudere una centrale oggetto di pesanti critiche, ma delle altre 57 si parla poco o nulla.
In Italia di nucleare non si parla più: poco dopo Fukushima, nel giugno 2011, un nuovo referendum ha chiarito che gli italiani non vogliono sentir parlare di atomo. Altri paese, tuttavia, pensano invece di aumentare la quota nucleare: in particolare, Argentina, Brasile, Cina, Svezia, Canada e Sudafrica. Solo i cinesi stanno costruendo 28 centrali, di cui sette con cantieri aperti dopo il disastro giapponese.
Le due principali economie europee – Francia e Germania – sembrano aver scelto di prendersi un periodo di riflessione nei confronti dell’atomo – la Germania recede, e la Francia è in stallo. C’è un terzo paese europeo che – sorprendentemente – si colloca su posizioni completamente diverse: il Regno Unito. La rinascita nucleare britannica è stata inaugurata dall’ (allora) premier laburista Gordon Brown nel 2008, e secondo i sondaggi l’opinione pubblica approverebbe tuttora la scelta con l’80% delle preferenze, a patto che la nuova elettricità non sia più cara della precedente. Per la costruzione dei nuovi impianti sono state coinvolte imprese francesi e cinesi.
Ma cosa può spiegare queste diverse reazioni in Francia, Germania e Regno Unito? Certamente si tratta dell’influenza di diversi stili e contesti politici, ma l’impulso impresso dai governati risente anche dell’influenza del costo del mix energetico. L’impatto principale è stato esercitato dalle energie rinnovabili. In base al sistema attuale di quotazione nelle borse elettriche, le rinnovabili godono di un “vantaggio” rispetto alle tradizionali: che le produce riceve un compenso fisso per la produzione (un “incentivo”), e poi vende l’elettricità in borsa. Ovviamente le vendite avvengono quando c’è più energia a disposizione – e per il solare si tratta delle ore centrali della giornata. Le stesse ore rappresentano uno degli orari di maggior domanda, e quindi di maggior ritorno per gli operatori tradizionali. Con le rinnovabili, tale “picco di prezzo” è stato appianato, e le fonti tradizionali ne hanno fortemente risentito.
L’uscita tedesca dal nucleare dipende quindi anche dai problemi di “profittabilità” degli impianti tradizionali. I più cinici sostengono che, in realtà, la “decisione” di Angela Merkel non sia stata altro che il riconoscimento di una situazione di fatto. Di più: sarebbe una comoda soluzione per assegnare alle aziende energetiche un “risarcimento” per l’uscita da investimenti nucleari che stavano rapidamente scivolando sotto la soglia della profittabilità – si parla di una richiesta tra i 15 e i 20 miliardi di euro per tutta l’industria.
Questo quadro variopinto è completato da una cornice europea dai contorni inaspettati: a fine 2013 su alcuni giornali circolavano voci sull’intenzione dell’Unione Europea di reintrodurre piani di sostegno al nucleare nel continente. In generale conviene notare che tutto il sistema non è scevro da una notevole volubilità dovuta a fattori emotivi, e che – anche al di là del dibattito nucleare – denuncia una grave carenza di pianificazione concreta. Da più parti si sta dipingendo la situazione come se fosse un banale e desiderabile sillogismo: “le rinnovabili hanno reso inutile il nucleare”. Il problema è che non è così: è stato il sistema di prezzo delle rinnovabili – con tutti i suoi limiti e carenze – che ha devastato le borse elettriche e ha sconquassato l’economicità degli impianti tradizionali, facendo crescere il prezzo dell’elettricità (quello finale, dunque per il consumatore), ma riducendo il prezzo nelle borse.
È chiaro che non si tratta della fine della storia: le nuove rinnovabili hanno un grande potenziale, e le fonti tradizionali pongono gravi problemi. Il nucleare ha limiti enormi – non ultimo quello della gestione delle scorie che, da solo, imporrebbe di evitare ulteriori sviluppi di centrali. Ma bisogna coerentemente considerare come la (non) struttura del sistema elettrico europeo stia rovinando l’economicità della rete, e dopo aver eliminato il nucleare, potrà finire per eliminare anche le rinnovabili. Ciò dipende dal fatto che, per questioni di approvvigionamento, prezzo e tempi, la soluzione più rapida per sostituire l’atomo sarà il carbone. La Germania si sta già attrezzando in questo senso: nuove centrali stanno aprendo nel paese, e l’uso del carbone nel 2013 ha raggiunto il livello più alto della storia.
È una conseguenza di un mix rinnovabile-tradizionale sbilanciato: all’aumento delle rinnovabili è seguito un aumento delle tradizionali “economiche” – e il carbone costa meno del gas. I “vecchi” impianti nucleari offrivano elettricità a prezzo relativamente ridotto, e il loro spegnimento sarà ora sostituito dall’accensione di centrali a carbone. Così, i piani tedeschi del “100%” rinnovabile rimarranno lettera viva solo nella propaganda elettorale; nella realtà saranno lettera morta. Guardando al futuro, moltissimo dipenderà dal costo degli incentivi, dalla loro distribuzione e dalla loro gestione – dunque da scelte anzitutto politiche. Proprio il costo degli incentivi è oggetto di dibattito, perché questi rappresentano ormai una componente significativa nelle bollette delle famiglie e delle aziende, tanto da poter far cambiare ancora una volta gli umori dell’elettorato. Come risponderà Berlino? La Germania ha una particolare responsabilità in questo senso: come “paese-modello” deve tornare a offrire un quadro di riferimento coerente e razionale.