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Il “miracolo” spagnolo dagli anni Ottanta: investimenti europei e infrastrutture

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Negli anni Ottanta fu avviato in Spagna un processo di sviluppo infrastrutturale che avrebbe avuto profondi effetti sul paese, visibili ancor oggi, e che sono una delle basi di quel “miracolo economico” spagnolo che è riuscito a trasformare in poco più di trent’anni la Spagna da paese periferico, arretrato ed appena uscito da una dittatura in un attore importante dell’Unione Europea.  

Era l’ottobre del 1982 quando due giovani dirigenti andalusi, con le loro giacche di velluto, la loro retorica sinistrorsa e radicale, guidavano i socialisti spagnoli alla loro vittoria elettorale più importante. Si trattava probabilmente di un punto di svolta decisivo per le stesse sorti della storia spagnola del Novecento.

Uno, Felipe González sarebbe divenuto presto non solo il premier più longevo della Spagna postfranchista, ma anche il front-man di quella modernizzazione iberica che nel corso degli anni Ottanta avrebbe fatto furore, e di cui le infrastrutture sarebbero diventate uno dei simboli. L’altro, più defilato, era Alfonso Guerra, che proprio dopo le elezioni proferì la frase poi diventata famosa: “la Spagna non la riconoscerà neanche la madre che l’ha partorita”. Ed in parte fu così, soprattutto perché con l’ingresso nella CEE nel 1986, la Spagna ritornava su quei binari di convergenza con gli altri paesi europei occidentali che la dittatura franchista aveva bruscamente interrotto.

Un elemento chiave, in questo senso, fu proprio l’arrivo di consistentissimi flussi di fondi europei negli anni Ottanta e Novanta (soprattutto di obiettivo 1); la Spagna diventerà contribuente netto solo nel 2011. Una parte importante di essi fu destinata nel corso dei decenni alla realizzazione di infrastrutture di trasporto, una leva fondamentale per migliorare l’insieme delle condizioni di vita dei cittadini e le prestazioni dell’intero sistema paese. Una leva ovviamente non neutra, che s’intreccia con visioni ed interessi politici frastagliati.

Fondamentalmente per due ragioni. La prima è di visione geopolitica (interna ed esterna). Come ha sintetizzato efficacemente il giornalista de La Vanguardia Enric Juliana, i due grandi partiti “statali”, i socialisti del PSOE e i popolari del PP, sono portatori di culture politiche che collocano la Spagna in scenari diversi: per i primi, strettamente vincolata al nucleo franco-tedesco europeo, mentre per i secondi con una proiezione più atlantica. Se il PSOE ha immaginato una rete interna fatta di poli forti (anche periferici), il PP ha ribadito la tradizionale propensione della destra spagnola per un sistema di trasporti indiscutibilmente centrato sulla capitale Madrid.

La seconda ragione per cui gli investimenti hanno avuto una valenza anche politica riguarda la crescente complessità della cosiddetta Spagna “delle autonomie” la moltiplicazione degli attori politici territoriali ha spinto in maniera crescente a utilizzare le infrastrutture (o la promessa della loro realizzazione) come un importante strumento di costruzione di consenso.

Tutto ciò aiuta a spiegare anche la dimensione quantitativa del fenomeno: dal 1985 al 2002, si passò da un investimento pari allo 0,6% del PIL ad un 1,37%. Nel 2008 si superò il 2%: una percentuale di gran lunga superiore a quella di altri paesi europei con caratteristiche e bisogni simili. E se si guarda alla provenienza degli investimenti, la parte del leone l’ha fatta lo Stato, seguito a una certa distanza dalle amministrazioni territoriali, e più da lontano dai privati.

La distribuzione per tipo di infrastrutture nel corso del tempo poi mostra differenze significative. Se nel caso di porti e aeroporti (con qualche significativa eccezione) il ritmo degli investimenti è stato costante, fra le infrastrutture stradali e quelle ferroviarie vi fu un vero e proprio avvicendamento di priorità, dettato non solo dallo sviluppo del sistema globale dei trasporti spagnoli, ma anche delle mutevoli egemonie politiche e territoriali. Negli anni Ottanta, il grosso degli investimenti fu così dedicato al miglioramento dei trasporti su ruota, con un deciso impulso alla costruzione della rete autostradale come parte importante della modernizzazione d’impronta socialista. Bisogna pensare infatti che, nonostante il turismo avesse in alcune zone del paese (come la Costa Brava) spinto alcuni privati ad investire in questo settore, non sarà fino agli anni Novanta che si potrà parlare di una struttura autostradale vera e propria. Al di là del ritardo con il quale la Spagna si dotò di questa importante infrastruttura, la differenza fra la rete statale, gratuita, e quella privata, ovviamente a pagamento, ha generato nel corso dei decenni polemiche politico-territoriali di una certa entità.

Dagli anni Novanta in poi, integrata già la Spagna nel contesto europeo e con l’ambizione di scalare posizioni nel club comunitario, la grande protagonista è stata invece la rete ferroviaria, e nello specifico, la rete di alta velocità (AVE). La Spagna è sorprendentemente oggi, fra i primi tre paesi al mondo per chilometri coperti da questo servizio. A maggior ragione se si considera che il grosso dei binari del paese iberico è di cosiddetta vía estrecha, non compatibile con lo standard europeo.

L’inaugurazione della prima linea ad alta velocità (Madrid-Siviglia), nel 1992, fu la manifestazione plastica dell’asse di ferro fra il socialismo trionfante degli anni precedenti e le sue basi territoriali andaluse.

La vera a propria febbre dell’AVE vissuta soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, in corrispondenza all’arrivo del PP al governo, avrebbe dimostrato l’importanza politica di questa risorsa. Stavolta, gli assi di sviluppo della rete sarebbero stati i collegamenti con la costa valenciana – granaio di voti del PP in quel periodo – ed in minor misura la Catalogna. Non bisogna dimenticare infatti che dal 1996 al 2000 José María Aznar governò proprio grazie ai voti dei nazionalisti catalani moderati di CiU (Convergència i Unio), benché a Barcellona l’AVE arrivasse tardi e male, e il collegamento con la Francia si ultimasse solo nel 2013.

Il periodo tra il 2000 e il 2008 (anno in cui per la Spagna tutto cominciò a cambiare per il peggio) ha visto un’ipertrofia delle infrastrutture di trasporto. Con il traino fortissimo dell’ampliamento della rete di alta velocità (vero e proprio buco nero da un punto di vista finanziario), anche gli investimenti per porti, aeroporti e strade, con i relativi indotti, sono stati una parte decisiva di quella che sembrò la stupefacente performance economica degli ultimi anni.

A volte con risultati positivi, come nel caso del nuovo terminal dell’aeroporto di Barajas inaugurato nel 2006, ed ora punto di riferimento europeo del traffico con il Sudamerica o della connessione ferroviaria ad alta velocità con la Francia, a volte decisamente meno. È il caso dell’aeroporto di Castelló, vera e propria cattedrale nel deserto, o della sottoutilizzazione dell’imponente sistema autostradale intorno a Madrid, o delle nuove linee AVE, sviluppate – e non ancora completate – verso un nord decisamente poco popoloso.

In realtà, anche prima del cosiddetto “frenazo” del 2008, varie voci avevano avvisato sull’uso distorto che si stava facendo delle infrastrutture dei trasporti. In campo accademico, alcuni economisti (come Ginés De Rus, e Germà Bel) mettevano in discussione il modo, definito poco razionale, con cui si era sviluppato il sistema nell’ultimo decennio. E anche nel dibattito pubblico, molti sottolineavano che destinare il grosso degli investimenti sull’alta velocità ferroviaria significava trascurare questioni ancora più decisive, come il rafforzamento del network del cosiddetto arco mediterraneo (linea Catalogna-Valencia-Andalusia) o migliorare i nodi ferroviari di prossimità di grandi città come Barcellona.

Con la crisi il dibattito si è riaperto, anche perché una parte del malessere diffuso nei confronti dei due grandi partiti tradizionali ha riguardato anche le loro scelte su questi temi. Oggi la questione è importante nell’agenda politica spagnola: si tratta in sostanza di riprendere il discorso, interrotto dalla crisi, della convergenza e dell’integrazione con il resto del continente. Proprio per questo il tema delle grandi infrastrutture potrà essere affrontato soltanto se tutti gli attori politici coinvolti saranno capaci di ripensarlo come un pezzo di un sistema di trasporto ben più grande: in definitiva, europeo.