Il 16 giugno scorso la Corte costituzionale del Kuwait ha ordinato all’emiro ed erede presunto al trono, sheikh Sabah Ahmad Al Sabah, la dissoluzione del parlamento nazionale. Il paese si prepara a nuove elezioni, previste per il 25 luglio. Il provvedimento è giunto dopo che l’emiro aveva emanato in dicembre un decreto per modificare il sistema elettorale; la scelta aveva subito sollevato numerose polemiche e l’opposizione aveva boicottato le elezioni tenute nello stesso mese. La Corte ha poi ritenuto il decreto incostituzionale.
La modifica della legislazione che l’emiro persegue riguarda in particolare le modalità di espressione del voto: in Kuwait, paese che vanta la tradizione parlamentare più antica dell’area del Golfo, infatti, i partiti politici sono ancora illegali. I candidati, dunque, concorrono alle elezioni come indipendenti e ogni cittadino può esprimere fino a quattro preferenze. Il nuovo decreto, passato dall’emiro senza una discussione parlamentare, ha ristretto il numero di preferenze a una, impedendo di fatto anche la creazione di ampie coalizioni di opposizione al governo. I vertici di governo hanno giustificato il provvedimento come un modo per allinearsi alla prassi delle altre monarchie dell’area.
Storicamente, il Kuwait si è distinto per l’avanzato grado di sviluppo del sistema politico e costituzionale. Dalle rivoluzioni del 2011, si è però registrato un restringimento degli spazi per l’opposizione politica. Uno dei principali oppositori alla famiglia reale, Ahmad al-Sadun, businessman e ultimo presidente del parlamento, sottolinea come il paese sia ad un bivio: tornare alla stabilità di cui ha finora goduto oppure procedere verso l’ignoto, accettando la nuova legge elettorale che modifica una volta per tutte gli equilibri delle forze politiche.
Secondo la Costituzione, adottata nel 1962, il parlamento dispone di una vera potestà legislativa e funge da contropotere all’esecutivo, nonostante sia dominato dalla famiglia reale e non debba godere a priori della fiducia del parlamento. Il primo ministro, nominato dall’emiro, sceglie i membri del gabinetto di governo. La gran parte delle decisioni politiche viene assunta dai membri dell’esecutivo, che per tradizione hanno comunque cercato il consenso con i deputati.
Un secondo motivo di malcontento riguarda il processo di selezione dei candidati ammessi a concorrere alla nuova tornata elettorale, durato dieci giorni e concluso alla fine di giugno. Almeno 30 su 418 candidati totali sono stati estromessi per ragioni formali, in particolare coloro che hanno commesso reati minori. Il dato è ancor più rilevante se si considera che il parlamento della piccola monarchia kuwaitiana è formato da appena cinquanta deputati. Soltanto otto donne sono riuscite ad avanzare la propria candidatura: anche questo provvedimento ha contribuito ad acuire il malcontento poiché, riguardo all’estensione del diritto di voto passivo alle donne, il Kuwait detiene un record pionieristico nella regione. Nelle elezioni parlamentari del 2009, quattro candidate hanno ottenuto un seggio. Il successo non si è replicato nel febbraio del 2012, quando il paese ha conosciuto una forte ondata di protesta a seguito dell’approvazione di un pacchetto di riforme economiche impopolari.
Se, da un lato, la nuova legge elettorale è considerata uno strumento con il quale l’esecutivo può dominare quasi totalmente l’assemblea, dall’altro il governo ha accettato di convocare nuove elezioni al più presto, dando così un segnale di distensione agli oppositori. In passato, tra il 1994 ed il 1999, diversi ministri, legati alla famiglia reale, si sono dimessi per evitare di ricevere una mozione di sfiducia da parte del parlamento. Ciò, oltre a creare un importante precedente, dimostra come in Kuwait esista una dialettica tra i poteri dello Stato, capaci di controllarsi vicendevolmente. In quest’ottica, il recente intervento della Corte costituzionale rappresenta un rafforzamento del delicato equilibrio costituzionale del paese, nonostante non sia stato richiesto il ritiro della legge elettorale contestata. Va ricordato che le sentenze della Corte costituzionale non possono essere sovvertite dai decreti dell’emiro e, pertanto, la Corte deve aver ritenuto la propria iniziativa come un atto di sfida già piuttosto palese verso la massima autorità dello Stato. A conferma di questo delicato equilibrio, il ministro dell’informazione, sheikh Salman Sabah Al Salim Al Hamud Al Sabah, ha affermato che il governo rispetta lo stato di diritto e si adegua a ogni verdetto emanato dalla Corte costituzionale. Ma il quadro politico resta incerto.
Una parte dell’opposizione ha già annunciato che non concorrerà alle elezioni a meno di non emendare la legge elettorale. L’Alleanza Nazionale Democratica e la tribù degli Awazim, la più numerosa del paese, ha confermato invece che parteciperà. Non si è ancora espressa con chiarezza la tribù degli Al-Mutayri, la seconda più numerosa e radicata nelle varie provincie. In ogni caso la compattezza del fronte dell’opposizione appare minacciata.
Alle elezioni anticipate dello scorso dicembre si è verificata una bassa affluenza alle urne che si è attestata sul 43% degli aventi diritto. Il boicottaggio non è stato uno strumento di contestazione sufficiente e ha causato soltanto l’estromissione di parte dell’opposizione dai luoghi del potere. Se da un lato la nuova tornata elettorale rappresenta per l’opposizione l’occasione di rientrare in parlamento, il maggiore ostacolo non è tanto il disaccordo sul boicottaggio quanto l’incapacità delle tribù, degli indipendenti islamisti, dei liberali e dei movimenti giovanili di accordarsi su una piattaforma comune.
Un elemento condiviso potrebbe derivare proprio dalla richiesta di modifiche dell’assetto costituzionale, specie per quanto riguarda il rapporto tra il parlamento eletto e il governo nominato. Le ultime legislature hanno infatti evidenziato la difficoltà di raggiungere quell’equilibrio informale che, in passato, aveva assicurato stabilità politica. In un paese caratterizzato da grandi fratture che sono state finora ricomposte in blocchi omogenei grazie a delicati compromessi, la nuova legge elettorale, atomizzando l’assemblea, è percepita, prima ancora che come una violazione dei diritti politici, come uno strumento finalizzato a mantenere inalterato il rapporto tra i poteri dello Stato: ma questo andrebbe a tutto vantaggio dell’esecutivo.