Le elezioni in Andalusia, tenutesi a fine marzo, hanno rappresentato una prova inequivocabile che la “luna di miele” fra governo ed elettorato è già finita. Ancor prima dei fatidici cento giorni dall’insediamento del nuovo
esecutivo, la fiducia che la maggioranza degli spagnoli aveva nel Partido Popular (PP) sembra essersi già esaurita: la gestione della difficile crisi economico-finanziaria da parte della compagine del nuovo premier
Mariano Rajoy non è quella che si aspettavano i cittadini che, lo scorso novembre, premiarono i conservatori.
Non si spiega altrimenti, infatti, come un risultato elettorale già scritto da mesi (tutti i sondaggi prevedevano un trionfo del PP) si sia ribaltato in una vittoria de facto dell’assai malconcio Partido Socialista Obrero Español (PSOE), che potrà continuare a governare nella propria roccaforte in coalizione con una rediviva Izquierda Unida (la coalizione di sinistra radicale che aveva sostenuto il governo Zapatero dal 2004 al 2008). Evidentemente, sia i provvedimenti economici assunti a fine dicembre – in particolare l’aumento delle tasse e il congelamento degli stipendi dei dipendenti pubblici – sia la modifica delle norme sul mercato del lavoro, sono sembrati non coerenti con le promesse di prosperità e ripresa formulate da Rajoy durante la campagna elettorale delle politiche.
Un risultato degno di nota, ancor più se si pensa che proprio per evitare di deludere gli elettori chiamati al voto regionale, il governo aveva voluto temporeggiare nella presentazione della legge finanziaria, sapendo
che avrebbe contenuto misure ancora più dure e impopolari delle precedenti. La scelta di approvare il disegno di legge sul bilancio dello stato dopo le elezioni in Andalusia non è bastata a portare alla guida della più popolosa regione del paese un conservatore, e si è rivelata perfino dannosa. Ha infatti irritato la Commissione Europea e i partner comunitari, che invocavano a gran voce di conoscere il prima possibile i conti dello stato spagnolo dopo l’unilaterale allentamento dell’obiettivo deficit\PIL per il 2012 (dall’iniziale 4,4% al 5,8%), annunciato da Rajoy dopo il Consiglio Europeo dell’1 e 2 marzo. La successiva rettifica parziale, che ha condotto infine a fissare tale cifra al 5,3%, non è stata sufficiente a ristabilire per intero la fiducia di Bruxelles e dei soci europei nel premier spagnolo.
Di fronte a questa scomoda situazione di sorvegliato speciale in Europa, il governo di Madrid sembra ora deciso a sacrificare, almeno per il momento, il consenso interno, confidando di poterlo recuperare in tempo per le regionali in Catalogna e le europee del 2014. I durissimi tagli alla spesa pubblica (contenuti nella finanziaria e in una specifica misura per il risparmio di 10 miliardi in sanità ed istruzione) sono un messaggio ai mercati e all’UE, con il quale Rajoy, forte della maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento e del controllo di quasi tutte le regioni, cerca di evitare l’errore commesso finora.
Tuttavia, esistono fattori di instabilità interni che rischiano di crescere sino a livelli insostenibili, obbligando
l’esecutivo a porsi nuovamente il problema di gestire il quadro politico-sociale interno. Al di là dell’opposizione – che per ora non preoccupa il governo – delle sinistre e dei sindacati – questi ultimi comunque più vivi di quanto l’esecutivo non pensasse – a disegnare uno scenario difficile per Rajoy sono soprattutto tre elementi. In ordine crescente di importanza: il probabile ripresentarsi sulla scena del movimento degli indignados, che ha annunciato di voler tornare ad occupare le piazze del paese in occasione dell’anniversario della “acampada” nella madrilena Puerta del Sol del 15 maggio; le tensioni separatiste in Catalogna e nei Paesi Baschi, destinate ad acuirsi; la crisi dell’istituzione monarchica, punto d’equilibrio della democrazia spagnola
post-franchista.
In relazione al primo dei tre, va ricordato che la popolazione giovanile del paese iberico vive un enorme disagio: il tasso di disoccupazione sfiora il 50% e i percorsi di studio sono destinati a diventare decisamente più costosi dall’anno prossimo, a causa delle misure di austerità. Sono ingredienti di una miscela che può riportare le piazze a riempirsi di persone, in una riedizione del movimento d’indignazione che l’anno scorso fu considerato con simpatia dall’opinione pubblica, venendo percepito come una legittima manifestazione di malessere e una positiva dimostrazione di partecipazione di larghi settori del mondo giovanile, anche al di là delle posizioni politiche. Oggi, tuttavia, l’aumento della frustrazione dovuto all’aggravarsi della crisi potrebbe anche generare fenomeni di anomia e cieco ribellismo, di fronte ai quali un’eventuale risposta “muscolare” del
governo – verso cui inclinano alcuni settori del PP – sarebbe sicuramente un rimedio peggiore del male.
Più inquietante, in ogni caso, appare ciò che si profila all’orizzonte nei rapporti fra i nazionalismi periferici catalano e basco e lo stato centrale – rapporti storicamente complessi. Per la prima volta in oltre trent’anni di
esistenza, la principale forza politica catalana, Convèrgencia Democràtica de Catalunya, al governo a Barcellona, ha inserito in una risoluzione congressuale tra i propri obiettivi strategici la creazione di uno “stato proprio”, con un eufemistico per definire l’indipendenza dal resto della Spagna. Ciò rappresenta non solo la rottura di un tabù, ma anche l’indebolimento di un architrave del sistema democratico: i nazionalisti catalani, infatti, da sempre su posizioni autonomiste ma non secessioniste, hanno svolto sin dalla legislatura costituente del biennio 1977-78 un ruolo centrale nella politica spagnola. La crisi economica li spinge ora a cercare quanta più distanza possibile dal resto del paese, e a rivendicare il controllo totale delle proprie entrate fiscali. Anche nei Paesi Baschi è in crescita l’indipendentismo: grazie all’uscita di scena dell’organizzazione terroristica ETA è in auge la sinistra radicale da sempre fautrice della secessione, e il nazionalismo moderato e autonomista sembra destinato anch’esso a radicalizzare le proprie posizioni. L’anno prossimo qui si svolgeranno cruciali elezioni regionali che potrebbero giocarsi tutte sulla parola d’ordine della “separazione da Madrid”.
Infine, il terzo fattore di crisi interna risiede nelle recenti “disavventure” che interessano la famiglia reale. Non si tratta solo dell’incidente in cui è incorso il Re Juan Carlos I in un safari privato a caccia di elefanti in Botswana, che ha svelato all’opinione pubblica come il Capo dello stato impieghi in modo discutibile le proprie energie (e i soldi pubblici) in tempo di crisi; di grande rilievo è anche lo scandalo di corruzione e malversazione di fondi pubblici che coinvolge il genero del Re, sposo della Infanta Cristina, e che potrebbe vedere implicato lo stesso monarca secondo recenti indiscrezioni. La preoccupazione nella classe dirigente spagnola è molto alta, perché si percepisce come nella cittadinanza si stiano diffondendo sentimenti di profonda sfiducia anche verso un’istituzione che, sino ad ora, aveva dato buona prova di sé nel ruolo di rappresentante dell’unità nazionale e di arbitro politico. Lo spettro di una crisi della monarchia – e quindi dell’intero sistema costituzionale – ha cominciato ad aleggiare nel peggiore momento possibile.