international analysis and commentary

Il Giappone tra rafforzamento militare e autodifesa collettiva

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Il diritto alla “autodifesa collettiva” è stato invocato dal premier nipponico Abe Shinzo come fulcro di un cambiamento di prospettiva indispensabile per ridefinire il ruolo del Giappone sulla scena internazionale, coerentemente con quanto è oggi fortemente auspicato anche da Washington. Questo concetto è ormai parte integrante – a metà strada tra la causa e l’effetto – di quella radicale trasformazione del security environment nello scacchiere dell’Asia Nord-orientale alla base sia della politica asiatica dell’amministrazione Obama, sia delle revisioni delle “linee guida della difesa” in via di completamento a Tokyo. È una trasformazione che si incardina sulla tumultuosa crescita del potere – soft e hard – della Cina, e presenta non poche insidie. Tra queste spiccano una corsa al riarmo senza precedenti nella regione (dalle portaerei e dai sommergibili fino  ai caccia-torpedinieri e agli aerei da pattuglia marittima) e gli interrogativi circa le ricadute delle autonome opzioni strategiche di Washington e di Tokyo sulla alleanza che pur tuttavia entrambi i Paesi considerano imprescindibile.

Nei rapporti tra Giappone e Stati Uniti in effetti non sembrano addensarsi nuvole nel breve termine. La stessa questione dello spostamento dei marines americani dalla base okinawana di Futenma e della dislocazione di una parte di essi a Guam non provoca veri attriti, pur trascinandosi da anni. Essendo tutto sommato accettabile per entrambe le parti lo status quo, le contrapposte inadempienze non intaccano la sostanza del rapporto d’alleanza. Non vanno però sottovalutati gli effetti, nel tempo,  derivanti dal diverso significato che per i due alleati hanno i rapporti con la Cina. L’amministrazione Obama, e presumibilmente anche quella che verrà dopo di essa, è condizionata dalla necessità di dimostrare che la salvaguardia dei propri interessi strategici in Asia non ricalca gli schemi della guerra fredda (accusa, questa, spesso lanciata da Pechino). Ovvero non presuppone il “contenimento” della Cina e al contrario si basa sulla creazione di una “partnership collaborativa” che dall’Asia si estenda alla gestione di ogni possibile crisi. L’alleanza col Giappone in questa ottica è un tassello della ridistribuzione di potere e responsabilità dettata dall’assioma di ottimizzare la collaborazione tra amici per controbilanciare i tagli di bilancio: è insomma una “eredità” del passato, utile oggi a garantire stabilità, semmai da adattare alle circostanze anche grazie all’esercizio dell’autodifesa collettiva. Tokyo vede invece l’alleanza come una assicurazione contro l’aggressività cinese e nello stesso tempo come uno strumento per ribilanciare le proprie ambizioni a livello regionale grazie ad un accresciuto peso politico, diplomatico, economico ed anche militare. E che l’alleanza sia proiettata verso il futuro e non sia una semplice rassicurante abitudine è dimostrato proprio dalla connotazione nazionalistica data da Abe alle riforme in cantiere: trasformare il Giappone da partner debole e soggetto a regole che ne limitano le prerogative in un partner egualitario, “obbligato” a correre in aiuto dell’associato quando questi venga attaccato, ha valenze complesse, specie se associate a certe dichiarazioni di stampo palesemente “revisionista”. Va o potrebbe andare ben al di là di considerazioni tecniche come quelle – in riferimento a una recente esercitazione in Alaska – che negherebbero la possibilità di assistere in volo i B52 americani perché si tratta di velivoli da offesa.

La Cina continua, con gradualità ma con ostinazione, ad innalzare il livello della polemica sulle isole Senkaku Diaoyu, né nasconde la sua volontà di trasformarsi in una potenza marittima. In tal modo alimenta il dibattito sulla modifica della Costituzione pacifista giapponese e lo condiziona. Tuttavia l’elettorato nipponico sembra ostile a cambiamenti, e Abe non ha interesse a forzare la mano. L’orientamento da dare al rafforzamento militare del Giappone dipende in effetti solo in minima parte dagli aspetti giuridici della questione. Quello che conta è che la Cina – e qui siamo molto distanti dalle posizioni americane – viene percepita come una fonte di reale e immediato pericolo per la sicurezza e per la sovranità nazionale. Lo indica chiaramente il Libro bianco sulla difesa redatto in luglio dal ministero competente. Il presupposto è che la Cina ha quadruplicato il suo budget per la difesa nell’ultimo decennio e che le sue rivendicazioni sulle Senkaku sono inaccettabili. Poiché si mettono le due cose in stretta correlazione, se ne deduce che la sicurezza richiede accresciuti sforzi e in questo contesto non c’è in effetti bisogno di ampliare le prerogative delle Forze di autodifesa (SDF), poiché ciò da cui ci si vuole difendere è un attacco al proprio territorio. Semmai emendare l’Articolo 9 servirebbe per contrastare l’altro pericolo che incombe sul Giappone, quello che viene da Pyongyang. Di fronte alla minaccia di un attacco di missili balistici nordcoreani, infatti, la migliore difesa sarebbe una operazione preventiva, incompatibile con le attuali limitazioni circa l’uso della forza. Ma anche in questo caso ci si potrebbe “accontentare” dei sistemi antimissile di ultima generazione, oltre che dell’ombrello degli Stati Uniti, che con Pyongyang non userebbero certo le cautele necessarie con Pechino. Inoltre va considerato che i rapporti con la Corea del Nord vanno a singhiozzo ed ora si è in una fase di timido disgelo. Per di più aleggia sempre il dubbio che quello di Pyongyang sia solo un bluff che nasconde la debolezza del regime.

Quando si tratta di Pechino, invece, si sente la necessità di rispondere colpo su colpo. Alla escalation circa le Senkaku, con incursioni di navi cinesi e “provocazioni” sempre più frequenti, si è reagito con una massiccia presenza navale e aerea nel remoto settore e con esercitazioni che simulano la riconquista di una “imprecisata” isola dopo una invasione nemica. Significative in questo senso le recenti manovre anfibie (Dawn Blitz) condotte sulle coste californiane insieme ad americani, canadesi e neozelandesi, cui hanno partecipato un migliaio di soldati giapponesi e che per la prima volta hanno visto impiegate forze di terra, di mare e aeree. Nella stessa logica rientra la decisione di potenziare la flotta di guardacoste e di dotarsi degli MV 22 Ospray, i velivoli a metà tra un aereo e un elicottero già di stanza nelle basi americane: “Migliorare la capacità di trasporto delle SDF è cruciale per rispondere ad attacchi contro piccole isole”, si legge nel Libro bianco.

Non ci sono tuttavia solo le Senkaku. Malgrado Abe abbia aumentato il bilancio per la difesa dopo undici anni di stasi, il build up militare è in realtà una costante già da qualche tempo, con una rincorsa che ha portato nell’ultimo anno fiscale a spese per la difesa che ammontano a 121 miliardi di dollari per la Cina (+10% rispetto al precedente) e 51 miliardi per il Giappone. Questa appare a molti analisti una prova che il nazionalismo del nuovo governo Abe è solo una questione di facciata e si inquadra, per quanto riguarda la trasformazione delle SDF, in un trend di lungo periodo. Certi eccessi verbali che arrivano a negare le responsabilità dell’imperialismo giapponese non preluderebbero a cambiamenti di sostanza ed anzi sarebbero spesso ad esclusivo uso interno. Non escludono neppure un “doppio binario” che si traduce in una gestione moderata della diplomazia, come suggerisce ad esempio la proposta lanciata da Abe subito dopo la vittoria elettorale di luglio di un vertice pacificatore col presidente Xi Jinping (alla quale Pechino ha risposto peraltro negativamente). Ma non va sottovalutato che questa rincorsa a dotarsi di armamenti sempre più sofisticati – si pensi ai pur costosissimi caccia F35 di cui Tokyo si è impegnata ad acquistare 42 esemplari – viene politicamente tradotto in reciproche provocazioni. Ultima in ordine di tempo, ai primi di agosto, il varo della portaelicotteri – ma facilmente trasformabile in portaerei – Izumi nel porto di Yokohama. Con le sue 19mila tonnellate di stazza e i suoi 248 metri di lunghezza, è il più grande vascello militare costruito dai giapponesi dalla fine del secondo conflitto mondiale. Per Washington è un passo nella giusta direzione, malgrado le invettive cinesi contro “l’approccio militarista di Abe per ricostruire l’orgoglio nazionale”. In ogni caso, è un segnale che l’alleanza nippo-americana tiene e che forse trae vantaggio dalla opportunità di scaricare sulle tensioni tra Pechino e Tokyo una parte dei malumori cinesi provocati dal Pivot to Asia di Obama.