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Il fragile assetto del Sudan del Sud e i tentativi di pacificazione

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Il Sudan del Sud è lo Stato più giovane del pianeta, ma la sua breve storia si è già tinta dei colori di una cruenta guerra civile. Il referendum del luglio 2011 aveva fatto credere che dopo 50 anni attraversati proprio da guerre civili la regione potesse finalmente vivere una pace insperata. Separati e divisi, con un nuovo Stato a Sud, ma senza più guerre fratricide.

Invece, il nuovo Sudan del Sud ha avuto subito una vita burrascosa. Già nei suoi primi mesi, i problemi frontalieri con i vicini del Sudan si sono ripresentati. Paese tra i più poveri al mondo, con un tasso di mortalità infantile che sfiora l’8% e un analfabetismo al 75%, il Sudan del Sud ha un’economia fragilissima. Gran parte della popolazione vive in zone rurali e pratica un’economia di sussistenza; così l’economia statale si regge sulle esportazioni di petrolio, estratto principalmente vicino al confine con il Nord e convogliato tramite vecchi oleodotti alle raffinerie del Sudan (nella capitale Khartoum per lo più). Il controllo di questa regione frontaliera è stato cruciale nel processo di pace di tre anni fa, ed ancora oggi vi sono diatribe irrisolte circa lo status di “zona franca” di cui godono alcune località petrolifere di confine (per lo più nell’area della neo-capitale Malakal, dove l’appalto per l’estrazione del greggio è affidato a compagnie occidentali).

Se fino a pochi anni fa però le tensioni con il Sudan erano la preoccupazione principale, adesso a queste si aggiungono nuove e feroci crisi interne. Come spesso in passato, le crisi politiche servono a togliere il velo su ben più radicati conflitti etnici. Il Sudan del Sud è, come molti Stati centrafricani, un arcobaleno di etnie: con una superficie totale più grande di quella dell’Ucraina ed una popolazione che supera i 12 milioni di abitanti, si stima che sul territorio di questo paese vi siano più di 20 etnie diverse. L’etnia principale è quella dei Dinka (quasi il 40% della popolazione), ma molta influenza hanno anche i Neur (oltre il 15%), gli Shilluk, e gli Acholi. Con l’avvento dell’indipendenza il presidente eletto, Salva Kiir Mayardit – dell’etnia Dinka – ha potuto governare supportato da una larga maggioranza. Nella disastrata situazione socio-economica post-conflitto però Kiir ha finito per accrescere ancor più il senso di distacco tra il governo e la popolazione, con tensioni crescenti. Gli scontri sono cominciati nel dicembre 2013, quando egli ha accusato il suo vice, Riek Machar (di etnia Neur) di complottare alle sue spalle. La spaccatura politica ha ben presto allargato la faglia al contesto sociale e militare, quando gran parte dell’esercito si è schierata al fianco di uno (governativi) o dell’altro (ribelli). La crisi politica è sfociata presto in violenze e saccheggi, ma anche mobilitazioni di truppe gestite in parte come eserciti regolari.

A dicembre le fazioni ribelli sembravano poter prendere il sopravvento, riuscendo a coinvolgere nel conflitto regioni inizialmente estranee (come le zone desertiche ad ovest di Malakal). I militari dissidenti arrivano ad Akobo e penetrano nella base delle Nazioni Unite facendo strage di Dinka. La lotta intestina diventa a tutti gli effetti un conflitto etnico. Dopo un mese di trattative in cui Machar ha più volte dichiarato la propria volontà di prendere il potere, si arriva ai negoziati di pace. Con la mediazione dell’Unione Africana si firmano i cessate il fuoco. Il tentato colpo di Stato del dicembre scorso si risolve così in una tregua tra le parti, rispettata però solo sulla carta. Già nelle settimane immediatamente successive alla pace infatti gli scontri proseguono nelle regioni dell’Alto Nilo, dove testimoni internazionali rilevano il massiccio utilizzo di bombe a grappolo e altri ordigni proibiti dalla legislazione internazionale. Molti capi militari dei ribelli, in qualche modo non più sotto il diretto comando di Machar, avevano dichiarato l’intenzione di proseguire la lotta armata ad oltranza – o fino alle eventuali dimissioni del presidente Kiir. A farne le spese è come sempre la popolazione, già gravata da anni di guerra sulle spalle. Human Rights Watch ha calcolato in quasi 20.000 i morti dalla fine dello scorso anno e in quasi un milione gli sfollati. Altre organizzazioni come Médecins sans frontières hanno denunciato uccisioni sistematiche di soldati e pazienti ricoverati negli ospedali.

Tuttavia, una possibile svolta per la fine delle ostilità è avvenuta pochi giorni fa, quando le trattative dell’Unione Africana e la mediazione dell’Etiopia hanno portato ad un nuovo incontro tra i capi delle due maggiori fazioni in lotta. Kiir e Machar, ad Addis Abeba, hanno ribadito la volontà di arrivare ad un accordo di pace, seppure con modalità differenti. Una prima opzione è quella di un governo di transizione di unità nazionale in grado di condurre il paese fuori dalla crisi umanitaria, il problema più pressante. Entrambi i leader si sono detti certi che la priorità consista nell’aprire corridoi umanitari nel nord del paese e in una stretta cooperazione con le agenzie delle Nazioni Unite. Da definire ancora però l’assetto governativo del paese, per il quale servirà dunque un nuovo filone di negoziati.

Se questa volte la pace dovesse rivelarsi duratura, gran parte del merito sarebbe da conferire alle diplomazie africane. Va detto che anche molti stati occidentali si sono offerti di lavorare per riportare la pace (il segretario di Stato Kerry ha dichiarato che il Sudan non si sarebbe trasformato in “un nuovo Ruanda”); ma soprattutto gli sforzi dell’Unione Africana e del presidente etiope Mulatu hanno certamente dato una spinta decisiva ai negoziati. Una buona notizia, almeno in fieri, se dovesse veramente arrivare la pace, anche per la capacità della rinata diplomazia africana di affrontare questa ennesima crisi.