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Il fattore religioso nel voto israeliano

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Nelle elezioni per il parlamento israeliano del 17 marzo, che hanno segnato un inaspettato trionfo per il Likud di Benjamin Netanyahu, la religione ha giocato ancora una volta un ruolo significativo, pur in una campagna segnata da altre preoccupazioni, socio-economiche e di sicurezza.

In primo luogo, la rilevanza del fattore religioso è dovuta all’elettorato ultraortodosso, il cui voto aveva portato i partiti religiosi ebraici a crescere nelle ultime tornate elettorali, fino a conquistare 30 seggi nel 2013, cioè un quarto del totale della Knesset: un peso che spesso è risultato determinante per consegnare alla destra il governo del Paese. Le elezioni del 2015 hanno rappresentato un’indubbia sorpresa, dato che i partiti religiosi si sono fermati a 21 seggi. Si tratta di un calo importante, che coinvolge sia Baiyt Ha-Yehudì (la casa ebraica) di Naftali Bennett, partito del sionismo nazionalista religioso – che ha conquistato 8 seggi rispetto ai 12 del 2013 – sia Shas e Yahadut HaTora, che rappresentano il mondo ultraortodosso haredi – fermatisi rispettivamente a 7 e 6 seggi, perdendone nel complesso 5.

Questo calo è dovuto a diversi fattori, a partire dall’“effetto Netanyahu”, la cui ascesa rispetto ai sondaggi è dovuta anche ad una “cannibalizzazione” dei partiti minori della destra, che hanno ottenuto meno voti rispetto alle attese. Per l’elettorato haredi ha pesato la disaffezione di una parte della base dovuta ad una controversa legge approvata dalla Knesset nel 2014, che estende la coscrizione militare anche agli studenti delle yeshiva (seminari religiosi), che in precedenza godevano di ampie esenzioni. Alcuni gruppi ultraortodossi hanno invitato esplicitamente i loro membri al boicottaggio elettorale verso la destra e verso i partiti religiosi, che non sono stati in grado di impedire l’approvazione della legge. Agli ultraortodossi (tradizionalmente molto rigidi sulla segregazione dei sessi) si contestava anche, “da sinistra”, l’esclusione delle donne dalle loro liste, che ha portato alcune esponenti del movimento a candidarsi all’interno dei partiti “laici”, o a formare proprie liste. Infine, sono anche da considerare le divisioni interne di questi partiti, da sempre caratterizzati da un forte frazionismo. Ad essere colpito è stato in particolare Shas, partito degli ultraortodossi sefarditi, che era stato parte del governo di Yitzhak Rabin al tempo del processo di pace, e di cui si ipotizzava l’ingresso in un eventuale esecutivo di centro sinistra in caso di vittoria di Isaac Herzog. Il partito ha infatti subito l’abbandono di una parte della sua leadership, che ha costituito la lista Yachad, non riuscendo tuttavia a superare la nuova soglia di sbarramento posta al 3,25%.

Guardando invece alle questioni più specifiche discusse in questa campagna elettorale, oltre ai temi già citati, la religione è entrata nel dibattito per una proposta di legge dell’esecutivo: quella che trasformerebbe Israele nello “Stato-nazione del popolo ebraico”, con implicazioni non solo per la popolazione araba (in paradossale contraddizione con il suo peso crescente nel Paese, ben rispecchiato dai 14 seggi ottenuti dalla Lista Araba Unita), ma anche per la stessa ispirazione laica della legislazione dello Stato. Una proposta contestata non solo dall’opposizione, ma anche da alcuni membri laici dello stesso esecutivo uscente.

Anche le questioni relative ai conflitti in Medio Oriente e al terrorismo internazionale sono state parte della campagna. Il leader del partito di estrema destra Yisrael Beiteinu e Ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, ha fatto leva proprio sul terrorismo, distribuendo come materiale elettorale copie di Charlie Hebdo con la caricatura di Maometto, in aperta polemica contro i partiti arabi che ne avevano criticato la vendita in Israele: una scelta che ha scatenato una controversia giunta fino alla Corte Suprema. Naturalmente, l’ISIS e la questione siriana sono entrati nella discussione, soprattutto a seguito di un attacco Israeliano contro le alture del Golan a fine gennaio, in cui sono rimasti uccisi militanti di Hezbollah ed esponenti iraniani (fra i quali un generale delle Guardie della Rivoluzione); ma anche in maniera paradossale, con le accuse a Lieberman da parte della sinistra di rappresentare un “ISIS ebraico”, dopo che questi ha sostenuto che gli arabi israeliani non fedeli allo stato meriterebbero la decapitazione.

Le minacce su cui Netanyahu ha puntato per sostenere la sua campagna fortemente ispirata alla sicurezza sono invece di tipo più ‘tradizionale’ – e intersecano solo indirettamente le questioni religiose e “identitarie”. Il Primo Ministro uscente ha insistito innanzitutto sul nemico “storico” di Israele, l’Iran, e sulla minaccia del suo programma nucleare, in particolare durante il suo discorso pre-elettorale al parlamento americano. Netanyahu, contestualmente all’attacco nel Golan, ha anche collegato l’Iran alla questione siriana, accusando Teheran di sfruttare il disordine della guerra civile nel Paese per creare un “terzo fronte” contro Israele tramite Hezbollah. Infine, come ultima mossa della campagna, è ritornato sulla questione palestinese, ribadendo la sua assoluta contrarietà alla nascita di uno Stato palestinese indipendente e alla formula dei due Stati, visti come una minaccia inaccettabile per la sicurezza di Israele, e avvertendo del pericolo di un’alta affluenza al voto degli arabi israeliani.

Relativamente agli scenari ora possibili, se Netanyahu riuscirà a trovare un accordo tra i potenziali membri della coalizione di centro-destra, si prospetta un esecutivo che non dovrebbe mutare sostanzialmente la condotta degli ultimi due anni sul piano internazionale – e in particolare sulle questioni palestinese e iraniana – con una linea dura e scarsamente disposta al compromesso. Sul piano interno, molto dipenderà invece dai partiti che entreranno nella coalizione, dal momento che i membri dell’esecutivo uscente non raggiungono da soli la maggioranza. Potrebbe configurarsi un esecutivo tendenzialmente “laico” (con l’ingresso di Kulanu, che ha impostato la campagna soprattutto sulle questioni socio-economiche), oppure uno caratterizzato dal ritorno al governo degli ultraortodossi – questi tuttavia, viste proprio le recenti controversie con l’esecutivo, porrebbero richieste “pesanti” sul tavolo delle trattative.