Nel caos mediatico – e geopolitico – in cui la comunità internazionale è piombata all’indomani dell’innalzamento dello scirocco rivoluzionario arabo, un dato sembra emergere: l’assenza del movente religioso. In parte è vero, e soprattutto rassicurante per l’Occidente, ma bisogna ancora dare una spiegazione al fatto che i “giorni della collera” cadano soprattutto di venerdì. In arabo, Jum’a, venerdì, indica il giorno della “riunione”, in cui si ricongiunge la comunità islamica, e in cui l’imam rivolge la sua khutba, il sermone. Visto che l’Islam è Din wa Dawla, religione e Stato allo stesso tempo, è chiaro che i sermoni del venerdì non possono prescindere dall’attualità politica. E così è stato. Dopo il primo caso di suicidio per mezzo del fuoco da parte del giovane tunisino Muhammad Al-Bou’azizi, il 17 dicembre scorso, ne sono seguiti altri in buona parte del mondo arabo. Gli ulema, i dotti islamici, e gli imam, si sono affrettati a condannare tali gesti definendoli “contrari ai principi dell’Islam”. E ciò è tecnicamente corretto, in quanto il suicidio, come atto fine a se stesso, è vietato dalla religione musulmana. Tuttavia, la loro è stata una condanna apparentemente religiosa e sostanzialmente politica. Altrimenti detto, i vari regimi, consci della minaccia, hanno affidato agli ulema e agli imam l’incarico di placare gli stati d’animo popolari. Ma, come si è visto nelle ultime settimane, tale approccio non ha avuto buoni esiti.
Nonostante la sua apparente e iniziale assenza, l’elemento religioso sembra tornare con forza nello scenario egiziano postrivoluzionario. A seguito dell’incendio di natura dolosa all’interno di una chiesa, i copti sono scesi in strada per manifestare il loro dissenso e si sono verificati numerosi scontri con gruppi di islamisti radicali, in particolare i salafiti. Secondo le notizie diffuse dalla stampa araba, il governo, provvisoriamente guidato dal Consiglio Supremo delle Forze Armate, sta facendo ricorso ai più popolari predicatori egiziani di orientamento salafita per cercare di porre fine agli scontri in atto. La decisione di ricorrere a queste figure religiose va individuata nell’attuale spaccatura all’interno di Al-Azhar, Università islamica e principale riferimento per l’intero mondo sunnita.
È proprio alla luce di tale spaccatura che i predicatori salafiti egiziani stanno conquistando la scena mediatica e propagandistica sulle televisioni di Stato e all’interno delle moschee. A tal proposito, dopo anni di silenzio mediatico dovuti alla censura imposta dal regime di Mubarak, lo sceicco salafita Muhammad Hassan è tornato a predicare in diretta televisiva.
Tuttavia, bisognerà attendere le prossime elezioni egiziane per avere un quadro chiaro della situazione e valutare la reale influenza del fattore religioso. L’intellettuale liberale egiziano di corrente musulmana moderata Tarek Heggy, recentemente in visita a Roma, si dice ottimista circa il futuro del suo paese, escludendo una presenza invasiva dei movimenti islamici più ortodossi nel governo.
In considerazione di ciò, l’amministrazione Obama non esclude la possibilità della nascita di governi islamici moderati in vari paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Secondo il Washington Post, la Casa Bianca ha predisposto la redazione di un documento valutativo che evidenzi le differenze ideologiche tra i vari movimenti islamici, utile per potersi orientare nell’eventualità che in futuro debba avere a che fare con governi di ispirazione islamica.
Poco presente – almeno fino ad oggi – negli altri paesi, il movente religioso risulta invece essere al centro delle proteste in alcuni Stati della Penisola araba, e naturalmente preoccupa non poco la famiglia reale saudita, cruciale del mondo sunnita.
Gli scontri nel Bahrein – che hanno spinto proprio i sauditi a intervenire militarmente, con il beneplacito del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) – confermano questa tendenza: essi si sono configurati come contrasti fra comunità sunnita – la minoranza nel paese ma allo stesso tempo quella che è rappresentata al potere dalla famiglia reale sunnita Al Khalifa – e quella sciita, all’opposizione. Sono proprio gli sciiti, con il sostegno confessionale e strategico del vicino Iran, i protagonisti delle proteste per chiedere riforme politiche nel paese, vale a dire un cambio di regime.
Alla luce degli scontri, ma soprattutto della minaccia rappresentata da un potenziale intervento indiretto dell’Iran, il GCC ha intanto stanziato venti miliardi di dollari a sostegno del Bahrein (oltre che dell’Oman).
Anche in questo caso, un ruolo importante è stato affidato alla principale figura religiosa sciita del Bahrein, lo sceicco Issa Al-Qasem, il quale, durante la preghiera del venerdì, ha messo in guardia i manifestanti da uno scontro confessionale con i loro connazionali sunniti.
Per la prima volta, lo scirocco del cambiamento è arrivato a soffiare per fino sulla stessa Arabia Saudita. Centinaia di sauditi della parte orientale del paese si sono riversati sulle strade per chiedere maggiori libertà e un sistema monarchico costituzionale. Come nel Bahrein, i manifestanti sono sciiti, che rappresentano la maggioranza nell’Arabia Saudita orientale.
A seguito di queste manifestazioni, il ministero dell’Interno ha ribadito il divieto di ogni tipo di sit-in, e il regime saudita ha fatto ricorso agli ulema per evidenziare il contrasto dottrinale tra la cultura delle manifestazioni e i principi della shari’a. Il Consiglio Supremo degli Ulema sauditi ha diffuso una fatwa con cui definisce haram (vietate) le manifestazioni in quanto non consone alla shari’a, invitando, altresì, il popolo a ricorrere alla munasaha, la consultazione.
In tale contesto, l’Iran sta tentando di forzare la presenza dell’elemento religioso e di ideologizzare le rivolte, per dimostrare che in qualche modo queste sono ispirate dalla rivoluzione islamica iraniana.
La Guida suprema, Ayatollah Ali Khamenei, ha dichiarato: “Se Dio vuole, nascerà un Medio Oriente fondato sull’Islam”, e, con riferimento all’Egitto, ha aggiunto che “il popolo egiziano musulmano ha alle sue spalle un glorioso passato islamico, che ha generato grandi glorie in termini di idee islamiche e jihad sulla Via di Allah”. Khamenei è tornato a ribadire che le proteste in corso nel mondo arabo sono inspirate dalla rivoluzione iraniana e ha parlato di un “risveglio islamico”, senza tuttavia fare alcun riferimento alle proteste massicce all’interno del suo paese. Più pragmaticamente, l’Iran sembra soprattutto interessato ad approfittare, ove possibile, delle rivolte per sostenere i gruppi sciiti nella regione.
Sul fronte libico, lo scenario è ovviamente molto incerto e complesso: al Qaeda, disorientata e finora assente, potrebbe trovare qui un terreno fertile in cui riorganizzarsi e trascinare le forze occidentali in un nuovo pantano.
In Libia il fattore religioso si sta già dimostrando un fattore rilevante nel trainare la rivolta contro il “tiranno” Gheddafi. A differenza della piazza tunisina prima e di quella egiziana poi, in Libia gli slogan principali non sono stati “libertà e democrazia”, ma “Gheddafi nemico di Allah”. Uno di questi slogan è stato ripreso da AQIM (al Qaeda nel Maghreb Islamico), in un recente comunicato a sostegno dei ribelli libici, ed evidenzia il diverso carattere e l’anima della rivolta libica. Lo slogan recita la testimonianza di fede islamica, adattata al contesto: “Non vi è altro Dio all’infuori di Allah e Gheddafi è il nemico di Allah”.
A confermare l’esistenza del fattore religioso nella rivolta libica vi sono anche le recenti produzioni mediatiche diffuse da al Qaeda. AQIM ha già diffuso due messaggi a sostegno dei “nipoti di Omar al-Mukhtar”, lo sceicco islamico libico che guidò la resistenza al colonialismo italiano negli anni Venti. E, dopo mesi di assenza, è tornato a farsi vivo anche uno dei massimi esponenti di al Qaeda, lo sceicco libico Abu Yahya al-Libi, il quale ha esortato i ribelli a portare avanti la loro jihad contro il “tiranno”. Nel suo ultimo messaggio audio, lo sceicco Abu Musab Abdel-Wudud, leader di AQIM, ha espressamente attaccato l’America e la NATO, mettendo in guardia i ribelli libici dal richiedere un intervento militare occidentale.