international analysis and commentary

Il fattore povertà nella società americana

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La povertà dovrebbe essere, a ragione, uno dei protagonisti assoluti della prossima campagna presidenziale. Gli effetti della grande recessione si sono riflessi nell’esplodere dei cosiddetti welfare-rolls, le liste dei beneficiari di diversi trattamenti assistenziali: dall’assicurazione contro la disoccupazione fino ai cosiddetti food-stamp, ovvero i tagliandi dell’assistenza alimentare. Nel 2010, il tasso ufficiale di povertà era del 15,1%, il dato peggiore dal 1993, e superiore di 2,6 punti percentuali rispetto all’inizio della crisi.

A  impressionare ancor più sono tuttavia i numeri assoluti del fenomeno: i poveri sono più di 46 milioni di persone, la cifra più elevata da quando il Census Bureau rileva il dato della povertà nel paese (ovvero nel 1959, quando l’incidenza relativa era tuttavia decisamente più alta). Anche in questo caso la crisi ha approfondito i differenziali etnico-razziali: oggi più di un afro-americano e di un ispanico su quattro sono poveri – solo pochi decimali separano i due gruppi – mentre lo sono un solo bianco su dieci e poco più di un asiatico su dieci. Se si guarda a bambini e adolescenti – gli americani con meno di diciotto anni – il tasso di povertà sale al 22%.[1] I numeri assoluti delle persone raggiunte da una qualche forma di assistenza pubblica sono molto vicini a quelli della povertà. Un dato vale per tutti: una larga parte della spesa di quasi 46 milioni di americani è pagata con le carte elettroniche del Supplemental Nutrition Assistance Program, cioè i food-stamp.[2]

Particolarmente inquietante è il problema della “povertà concentrata”: in netta controtendenza rispetto agli anni novanta, si registra infatti l’aumento della concentrazione spaziale della povertà. La riduzione del numero di poveri residenti in un’area in cui più del 40% degli abitanti sono poveri – i cosiddetti extreme poverty neighborhood – era stata interpretata come un altro segno promettente della fondamentale bontà sociale (e razziale) dell’era clintoniana. I dati del Census 2010 confermeranno invece, assai probabilmente, una tendenza già intravista da alcune ricerche pubblicate nei mesi scorsi: i poveri tornano a concentrarsi, questa volta non solo nelle inner-city ma sempre di più anche nelle aree suburbane. Al 2009, la popolazione complessiva – poveri e non poveri – degli extreme-poverty neighborhood era aumentata di circa un terzo rispetto al 2000, mentre è anche aumentata la probabilità che i poveri vivano in questi quartieri: la povertà “concentrata” pesa di più sul totale della povertà rilevata. Con il concludersi della rielaborazione del censimento 2010, sarà possibile approfondire le dimensioni etnico-razziali del fenomeno e la sua distribuzione geografica. Per ora, a colpire è il suo aumento nelle aree metropolitane della Sunbelt – quali Cape Coral in Florida e Modesto in California – nelle quali si concentrano gli effetti del collasso immobiliare ma anche le sue vittime principali, ovvero i latinos.[3]

Di fronte a dati di questo genere, l’attenzione pubblica nei confronti della povertà – e in particolare di quella urbana – dovrebbe essere elevata. Eppure la questione sociale è sempre presentata nei termini di una middle class stretta nella morsa della finanziarizzazione dell’economia e del divaricarsi dei redditi e delle ricchezze. Anche il neo-populismo democrat si è strutturato attorno alla denuncia delle super-ricchezze accumulatesi nell’era post-keynesiana ed alla difesa di un’America media che lavora (o che cerca lavoro) ma che fatica a mantenere il proprio status; si tratta di una sorta di populismo strabico, e la rimozione della povertà dal dibattito pubblico ha molte ragioni. Innanzitutto, decenni di retorica conservatrice sugli underserving poor hanno convinto una parte consistente dell’opinione pubblica che la povertà strutturale sia l’esito di tare culturali di chi ne è vittima più che di ragioni strutturali legate al modello economico e sociale prevalente: ne consegue che fare di questo tema una priorità può essere pericoloso perfino per il successo dello stesso progetto dei democrats. Parte del problema sta nella stessa assoluta marginalità dei poveri nello scambio politico – al di là degli esiti di alcune virtuose campagne di organizing (che rimangono pur sempre una goccia nel mare) perseguite da qualche organizzazione radicale e da qualche sindacato militante. “I poveri non votano e se votano un po’ più del solito scelgono comunque noi (come si è visto nel 2008)”, si diranno in molti fra i democratici. Insomma, nelle rappresentazioni correnti, la questione sociale ha più a che fare con la middle class (molto spesso bianca ) che con l’underclass (molto più aspesso afro-americana e in misura minore ispanica). Eppure non è sempre stato così.

Per un quarantennio abbondante, nei programmi elettorali dei democratici, alla voce Urban Policy si trovava l’elenco di un insieme di misure volte prevalentemente a combattere la povertà urbana. Dalle politiche di quartiere inventate da Lyndon Johnson con la sua Great Society e War on Poverty, fino a quelle per lo sviluppo economico delle Inner Cities e per la demolizione del Public Housing per edificare nuovi quartieri-modello introdotte da Clinton, il Partito Democratico ha sperimentato quasi tutti i modelli d’intervento. Negli anni settanta e ottanta, il protagonismo dei democratici su povertà e condizioni delle minoranze venne visto come una delle ragioni profonde della rimonta repubblicana in una working class e middle class sempre più convinta della retorica dell’undeserving poor e sempre più impaurita dalle Inner-city in declino. Ma da allora le cose sono cambiate: negli anni sessanta i democratici volevano estendere agli esclusi i benefici di una società che sembrava una formidabile macchina d’integrazione, oggi la sfida del neo-populismo è quella di articolare un messaggio che metta in rilievo come l’attuale modello non funziona più, non solo per i poveri ma anche per la stessa classe media. Parte della nuova povertà è fatta di una ex middle-class “declassata” dalla crisi, mentre la  povertà concentrata si fa largo fra quartieri suburbani un tempo “immuni”. La povertà, in altre parole, è fatta di volti e paesaggi che assomigliano di più a quelli di un’America media e quindi meno terrorizzante. Questa realtà, con un po’ di coraggio, dovrebbe aiutare i democratici a rendere meno strabico il loro neo-populismo.

[1] US Census Bureau, Income, Poverty, and Health Insurance. Coverage in the United States: 2010, Washington, DC, 2011.

[2] United States Department of Agriculture, Ottobre 2011.

[3] Elizabeth Kneebone, Carey Nadeau, e Alan Berube, The Re-Emergence of Concentrated Poverty: Metropolitan Trends in the 2000s, Brookings Institutions, Washington DC, 2011.