“Populismo” è stata una delle parole chiave della campagna elettorale del 2008: nel 2010 evolvono la retorica e i linguaggi – c’è un nuovo campione in città, il Tea Party – ma non scompare di certo la stella polare del discorso populista.
La storia del sistema politico americano è contrassegnata da ondate cicliche di populismo moralizzatore nelle quali il popolo, o un campione che lo rappresenta, si oppone all’egoismo degli interessi particolari. Il contadino e il piccolo proprietario terriero contro il finanziere aguzzino; il lavoratore contro i monopoli e i robber barons; l’imprenditore e la sua famiglia contro i burocrati (nella declinazione anti-statalista); small business vs big business (un conflitto, quest’ultimo, alimentato dalla stessa amministrazione Obama).
Il movimento populista americano ebbe un suo partito alla fine del diciannovesimo secolo, forte nelle aree agricole del Sud e dell’Ovest nelle quali la crisi economica, le trasformazioni del tessuto produttivo e finanziario del paese avevano prodotto povertà, rabbia e risentimento. Il People’s Party elesse persino un suo Senatore proveniente dallo Stato del Kansas. Da allora la retorica e i temi del populismo riemergono ciclicamente: nel movimento socialista e sindacale d’inizio ‘900, negli anni della Grande Depressione, nel nuovo conservatorismo di Ronald Reagan.
Lo storico americano Michael Kazin descrive la “Populist Persuasion” come una caratteristica americana, nella quale retorica e linguaggi dei diversi movimenti populisti conquistano la scena politica e pervadono il discorso pubblico e il funzionamento delle organizzazioni sociali e politiche. Il populismo in questo caso non sarebbe solo “discorso”, ma avrebbe anche una sua declinazione organizzativa, popolare e di massa. Il Tea Party è lì a ricordarcelo.
Anche il partito Democratico ha sempre avuto una sua anima populista, sia di matrice conservatrice che progressista. Nel primo caso uno dei suo esponenti fu George Wallace, il Governatore democratico dell’Alabama che lasciò il suo partito alla fine degli anni ’60 perché contrario alla leggi anti-segregazioniste. Il suo nemico era l’establishment del partito, che avrebbe scelto di assecondare gli hippies e i ben pensanti del Nord-Est allo scopo di togliere denaro ai contribuenti per regalarlo alle minoranze. E queste ultime divennero, effettivamente, la base del nuovo partito Democratico degli anni ’70.
Nel 2008, dopo gli anni del “common touch” di George W. Bush, la parola popolo è tornata ad appartenere al campo democratico: a tenerla in pugno è stato Obama. Egli invocava, a ogni comizio, l’unità delle gente comune contro la solita Washington delle lobby e dei poteri forti; e già a partire dal 2006 un approccio orgogliosamente populista era già tornato a fare breccia tra i Democratici: erano stati eletti Deputati e Senatori libertari, alcuni imbevuti di retorica religiosa, spesso più isolazionisti che pacifisti, ancora più spesso nemici del Big Business e del libero commercio che aveva fatto perdere posti di lavoro traslocando altrove gli impianti industriali. Durante le primarie democratiche Hillary Clinton ha utilizzato la stessa retorica negli Stati della Rust Belt (la cintura della vecchia economia manifatturiera), ma le paure e le insicurezze economiche avevano generato un nemico – l’establishment – del quale anche lei era accusata di far parte. Obama, almeno dal punto di vista retorico, era riuscito a rappresentare se stesso come incarnazione di un “interesse generale” (come diremmo qui da noi), sintesi carismatica di un’unità del Popolo, contro le élite e l’establishment.
E oggi, ormai a ridosso delle elezioni di mid-term? Questa guerra sembra non finire mai, alimentata dal fattore che caratterizza maggiormente il sistema politico americano: la polarizzazione ideologica. Parlavamo della Rust Belt manifatturiera in crisi: i Democratici – come riportato dal Washington Post del 4 di agosto – si preparano a lanciare un’offensiva comunicativa a favore, di fatto, del protezionismo e del nazionalismo economico. Impossibilitati nell’approvare nuovi investimenti pubblici di grande portata che possano pompare denaro nell’economia del paese, cercheranno di proteggere e rafforzare il manifatturiero americano. Lo show del Presidente Obama a Detroit, a fine luglio, è culminato nella celebrazione del Made in America, con gli operai della Chrysler a sostenerlo: l’obiettivo è l’introduzione di una tassa speciale per le multinazionali che delocalizzano.
“The message I want to deliver to our competitors and to those in Washington who’ve tried to block our progress at every step of the way is that we are going to rebuild this economy stronger than before,” ha detto Obama qualche giorno dopo di fronte a una platea sindacale “And at the heart of it are going to be three powerful words: Made in America.”
Dall’altra parte la retorica del Tea Party assume toni a volte sconvolgenti: grazie anche alla sua propaganda – essa stessa ferocemente anti-establishment, non importa se repubblicano o democratico – i Repubblicani convinti che Obama non sia nato negli Stati Uniti (cosa che lo renderebbe ineleggibile alla carica di Presidente) sono ormai il 41%. Erano il 28% otto mesi fa: elettori conviti che il suo essere “non americano” sia confermato dalla sua attitudine a espandere le funzioni d’intervento e regolamentazione del governo federale.
Il giornalista inglese Godfrey Hogdson l’ha definita “the war for American minds”: in questo contesto avranno luogo le elezioni di medio termine, che già ora vedono affacciarsi ai nastri di partenza candidati inaspettati – vincitori nelle primarie di questo o quel partito – grazie a una forma di odio generico e diffuso verso gli incumbents, gli eletti. Intanto, il pubblicitario Evan Tracey ha calcolato (sulla base di una proiezione costruita a partire dalle primarie di questi ultimi mesi) che nelle elezioni del 2010 si batterà il record delle inserzioni pubblicitarie negative, quelle che mirano a colpire direttamente il proprio avversario politico: la politica non è un pranzo di gala.