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Il fattore paura sul voto in Francia

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Ieri a Tolosa ha avuto un epilogo sanguinoso la caccia all’uomo del pluriomicida Mohammed Merah, durata una decina di giorni. C’è un movente politico-ideologico nell’uccisione di almeno sette persone nell’arco di diversi giorni che ha portato poi al raid della polizia francese: resta però aperto il quesito sul vero legame tra Merah e gruppi terroristici organizzati (presumibilmente nella galassia qaidista). Il profilo di questo cittadino francese di origine algerina comprende viaggi in Pakistan e Afghanistan, secondo le notizie circolate, oltre alle sue ultime dichiarazioni relative alla questione palestinese e agli interventi francesi in paesi islamici – una rivendicazione in piena regola. L’episodio sembra comunque confermare una tendenza alla frammentazione degli attacchi violenti di matrice genericamente jihadista, perfino sotto il livello delle “cellule” autonome: gli attacchi sono perpetrati da singoli individui con cittadinanza europea. A complicare le cose, Merah risulta aver condotto una vita tra crimini minori, prigioni francesi e contatti recenti con gruppi qaidisti: in sostanza, è una figura ibrida, non del tutto coperta dalla clandestinità, che dunque rischia di attirare meno attenzione rispetto a un “duro e puro” del terrorismo.

Il soggetto era in effetti da tempo sotto osservazione da parte delle autorità, e qui cominciano i problemi politici per Nicholas Sarkozy, Presidente e candidato ad un secondo quinquennato all’Eliseo. E, soprattutto, figura politica che ama ricordare la responsabilità primaria dello Stato nel garantire la sicurezza dei cittadini.

Si tratta di un leader in difficoltà e alla ricerca urgente di consensi, il quale dopo vari sondaggi negativi ha quasi recuperato lo scarto con l’avversario socialista, Francois Hollande, sull’onda di una retorica elettorale molto nazionalista e uno slogan che non lascia dubbi: “France forte”.

È utile ripercorrere sommariamente altre vicende recenti per identificare una traiettoria nelle scelte di Sarkozy. Ha puntato decisamente sulla politica estera – dove da sempre i presidenti di Francia hanno un controllo esclusivo delle scelte politiche – per rilanciare l’immagine sua e del paese dopo la caduta di Ben Ali in Tunisia, certo non auspicata da Parigi e imprevista come anche le successive “primavere arabe”. Si spiega in gran parte così la decisione di prendere l’iniziativa in Libia quasi esattamente un anno fa, portando con sé la Gran Bretagna di Cameron e poi – a malincuore – la NATO intera per garantirsi il necessario aiuto americano.

Il presidente francese ha poi cercato di volgere a proprio vantaggio una serie di delicate questioni irrisolte a livello europeo. Ha fornito una sponda affidabile alla Germania sui piani di austerità in risposta alla crisi dell’euro e sul “patto fiscale” che ha lasciato fuori la Gran Bretagna, insistendo intanto sulla tassazione delle transazioni finanziarie; ma ha anche imboccato nelle ultime settimane una linea neo-gollista, ipotizzando perfino di abbandonare i normali negoziati a livello UE se, tra altre richieste, non sarà accettata una clausola “buy European” a sostegno delle imprese del continente.

Allo stesso tempo, Sarkozy ha finito per rompere il fronte europeo sul tema (controverso quasi quanto le decisioni economiche) dei flussi migratori: Parigi ora mette in discussione l’intero sistema Schengen, avendo minacciato di sospendere l’attuazione degli accordi sulle frontiere se alcuni paesi recalcitranti non adotteranno misure di controllo più dure. L’Italia ha peraltro avuto modo di sperimentare direttamente le posizioni francesi sulla materia, in occasione della disputa per l’accoglimento dei migranti provenuti dalla Libia nella fase più acuta della guerra.

Di fatto, la Francia ha forzato in tutti questi casi i limiti del consenso continentale, anteponendo alla ricerca del compromesso una visione chiaramente nazionale – o al più concordata con Berlino. E’ un atteggiamento politicamente legittimo, ma anche rischioso.

E il rischio sembra essersi materializzato proprio in questi giorni, con il gesto omicida (reiterato) di un individuo solitario che la società francese non è chiaramente riuscita a integrare, né a fermare in tempo. Suonano ancora più stonate, quindi, le parole recenti di Nicolas Sarkozy sul ferreo controllo nazionale dei confini che egli pretende dai partner europei: non va dimenticato, infatti, che un personaggio ovviamente ritenuto pericoloso come Mohammed Merah ha avuto modo anche di viaggiare liberamente in Europa, godendo come cittadino francese della libera circolazione nello spazio Schengen.

Il “nuovo” terrorismo è un serio problema oggettivo per la Francia e per l’Europa intera, e nessun leader politico può certo risolverlo con un fiat. Ma è proprio qui che sta l’errore commesso da Sarkozy: la sua linea tutta “nazionale”, che potrà forse valergli alcuni voti alle presidenziali di aprile, rende ancora più difficile il lavoro comune di contrasto alla criminalità e al terrorismo – un lavoro spesso lento e poco spettacolare, ma indispensabile. Come del resto nel settore economico, la solidarietà intraeuropea ha certamente un prezzo, ma offre benefici concreti quando arrivano i momenti difficili.

Una campagna elettorale influenza inevitabilmente la retorica politica dei candidati, e lo stesso contendente principale all’Eliseo, Hollande, ha assunto posizioni che non facilitano la costruzione del consenso europeo. D’altra parte, l’opinione pubblica può lanciare qualche segnale di buon senso pragmatico ai suoi leader, riflettendo sul fatto che quanto succede in un paese può in futuro succedere in un altro, dagli attacchi speculativi a quelli terroristici. C’è allora da sperare che i francesi abbiano buona memoria.

 

Questo articolo è stato pubblicato su Il Messaggero il 23 marzo 2012.