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Il coraggio di riformare

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L’approvazione del tanto discusso Health Care Bill da parte del Congresso USA è realmente una buona notizia. Innanzitutto, pone fine all’assurdità che vedeva un diritto fondamentale delle persone, quello alla sanità, negato ai poveri del paese più ricco ed avanzato del mondo. È difficile sostenere di agire a livello internazionale in nome di diritti fondamentali che vengono poi però negati sul piano interno. Ma soprattutto, l’approvazione della riforma sanitaria mostra che Obama non è solo un grande talento elettorale, bensì un Presidente in grado di governare.

Dopo l’entusiasmo – giustificato, anche in chiave storica – per l’elezione di Barack Obama, in America sono presto cominciati i guai; il problema più grosso forse non è stato la crisi economica, bensì il rischio che il Presidente ha corso di rimanere intrappolato nelle pastoie (della spartizione) del potere.

Coloro che si lamentano dell’astrusità dei procedimenti decisionali dell’Unione Europea dovrebbero studiarsi quelli americani. Pochi sistemi istituzionali e decisionali sono così complessi, ricchi di sfaccettature e delicati passaggi come quello americano. Lo spoil system, una delle peculiarità e dei punti di forza del sistema americano, è anche un difficile passaggio per i neo-presidenti: è necessario quasi un anno per essere completato, periodo durante il quale il processo decisionale rischia di procedere a singhiozzo. Obama si è così trovato stretto tra il desiderio e la necessità di dare concreti e subitanei segnali di cambiamento, ed un sistema che non era invece istituzionalmente pronto per tradurli in realtà. La stretta disciplina che caratterizzava il cerchio stretto dei collaboratori di Obama in campagna elettorale non ha dunque potuto essere altrettanto efficacemente applicata una volta al governo, a causa della natura stessa dei processi decisionali americani. L’averci comunque provato, è stato subito giudicato come il risultato dell’effettiva inesperienza governativa del nuovo presidente. Idem dicasi di quella certa insofferenza mostrata da Obama di fronte all’impossibilità di fare le cose nei termini e nei tempi che si era proposto.

Nel vacuum decisionale, alcune eminenti teste d’uovo hanno ben pensato di suggerire al Presidente le strade migliori da percorrere. Con la giacca tirata da troppe parti, e sotto pressione per essere repentinamente passato dall’essere poco più che un privato cittadino all’uomo più osservato del mondo, Obama ha commesso qualche errore: il maggiore è stato probabilmente l’essersi appropriato della guerra in Afganistan come di una guerra “sua”, anziché un’avventura ereditata suo malgrado da altri. L’Obama degli ultimi mesi del 2009 era dunque diventato l’ombra dell’uomo che aveva trionfalmente vinto le elezioni un anno prima. Il discorso sull’economia alla Brookings Institution dello scorso dicembre, così come lo Stato dell’Unione di gennaio, per citare due soli esempi, sembravano più enunciati per persuadere se stesso di aver bene agito, che a convincere il pubblico che lo ascoltava. Lo smacco subito con la perdita del seggio senatoriale in Massachusetts, sempre in gennaio, ha poi sicuramente pesato sullo stato emotivo del giovane Presidente, conscio che senza il sostegno di Ted Kennedy (scomparso ad agosto) non avrebbe forse passato le primarie.

D’un colpo, come prima era considerato politically incorrect criticare Obama, è diventato fashionable il farlo. Subito, Barack Obama è stato paragonato a Jimmy Carter. Già nell’autunno, il Premio Nobel, contrariamente alle buone intenzioni del comitato di Oslo, è arrivato come una notizia sbagliata nel momento sbagliato. L’idea del Nobel come premio “alle intenzioni” ha aumentato la predisposizione al confronto con Carter. E il discorso che Obama ha pronunciato nel ritirarlo, con le disquisizioni sulla “guerra giusta” è stata una scelta infelice – visto che quel concetto implica inevitabilmente la divisione del mondo tra, parafrasando Sant’Agostino, i “buoni” che la guerra la fanno per dovere ed i “cattivi” che la fanno perchè ci provano gusto. Dunque, una scelta infelice perchè in intrinseca contraddizione con altri messaggi, ben più “obamiani”, quali il discorso del Cairo del giugno 2009.

Il risultato è stato che yes we can è diventato vorrei ma non posso e, di fronte all’intransigenza dei conservatori e all’indecisione di molti Democratici, il saggio consiglio che veniva dato ad Obama sulla riforma sanitaria era di lasciar perdere. In fondo in molti, a partire dal duo Clinton, ci avevano già inutilmente provato.

Fortunatamente Obama ha avuto il coraggio di rischiare e ha evidentemente deciso che, piuttosto di fare l’anatra zoppa, era meglio rischiare di fare l’anatra impallinata. Come sappiamo, ha vinto la sua scommessa e ha potuto legittimamente sostenere che questo è il modo per realizzare il cambiamento. Insomma, a mezzanotte di domenica scorsa, Obama è tornato ad essere Obama. Così facendo ha riportato la speranza – a casa e nel mondo – che credere nelle proprie idee e lottare per esse anche a rischio di essere sconfitti è non solo possibile ma anche produttivo. È per la politica interna di molti paesi – tra i quali il nostro, in cui governo ed opposizione appaiono entrambe incapaci di giocare il loro legittimo ruolo – un messaggio di speranza che dovrebbe far riflettere.

Cosa sarà di Obama nel prossimo futuro è comunque difficile dirlo. Vinta questa prima importante partita, molte altre sfide attendono il Presidente e resta da dimostrare che la stessa caparbietà ed attitudine al rischio possano portare frutti anche nel campo della politica estera. Ad esempio, presto arriverà sull’agenda internazionale uno dei temi di politica estera più cari ad Obama, quello del disarmo nucleare e della “opzione zero”. Per quanto quest’ultima sia un obbiettivo di lungo corso, la chiusura e ratifica del Trattato post-START con la Russia, il successo del Summit sulla Non Proliferazione di aprile e la conferenza di revisione del TNP di maggio avranno grosse implicazioni anche in altri settori della politica estera, a partire dalla questione Iran. Saranno così tre indicatori chiari dell’effettiva capacità di Obama di tradurre i buoni propositi in azioni concrete anche in politica estera.