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Il conflitto israelo-palestinese che guarda oltre Washington

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All’indomani della tregua fra Hamas e Israele a Gaza, tanto Abu Mazen (a nome del Governo palestinese di unità nazionale) che Benjamin Netanyahu hanno espresso al Segretario di Stato americano John Kerry l’intenzione di riprendere i negoziati per arrivare ad una soluzione del conflitto. In realtà, le azioni intraprese da entrambi suggeriscono che perseguono strade nuove, non guardando più agli Stati Uniti come il mediatore unico e indispensabile. Pressati da uno scenario regionale in rapido cambiamento, incalzati da sfide interne di non facile soluzione, consapevoli dell’estrema precarietà della tregua nella Striscia di Gaza, scettici sull’efficacia della mediazione americana e determinati più che mai a strappare maggiori concessioni, Abu Mazen e Netanyahu seguono rotte divergenti. Ma lo fanno nella comune convinzione di poter guadagnare terreno nei confronti della controparte.

Ad Abu Mazen l’America non basta più
Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese ha vissuto il fallimento della mediazione americana, a fine aprile, come la dimostrazione dell’incapacità dell’amministrazione Obama di ottenere concessioni dal Governo Netanyahu. Quando il Segretario di Stato Kerry indicò con precisione la deadline negoziale, Abu Mazen ritenne che Washington avesse in mano carte sufficienti per far arretrare Netanyahu su più fronti: confini, insediamenti, diritto al ritorno dei profughi del 1948, status di Gerusalemme. L’assenza di qualsiasi risultato su tutti i dossier ha generato grande delusione a Ramallah, rafforzando chi – come il negoziatore Saeb Erakat – sostiene la necessità di “seguire altre strade” per obbligare Israele a ritirarsi entro i confini pre-guerra dei Sei Giorni (1967). In particolare, dentro Al-Fatah (che resta la forza politica dominante in Cisgiordania) si ritiene necessario aprire un fronte di sfida con Israele sul “rispetto dei diritti umani” in Cisgiordania, ovvero fare leva sulle Convenzioni internazionali minacciando Israele di dover rispondere di “crimini di guerra in territori occupati” in forza della Convenzione di Ginevra.

Il conflitto di Gaza ha per lunghe settimane oscurato la leadership palestinese di Abu Mazen, a vantaggio di Hamas impegnata nel duello militare con Israele, ma quando si è trattato di cercare una tregua, Abu Mazen è tornato in campo come l’unico in grado di ottenerla. Grazie al fatto che Egitto, Arabia Saudita, Israele e Stati Uniti puntano su di lui per una ricostruzione della Striscia capace, nel medio periodo, di ridurre il potere di Hamas fino ad arrivare al possibile disarmo delle milizie. D’altra parte Hamas ha bisogno di Abu Mazen per avere i fondi necessari per pagare 40mila dipendenti pubblici a Gaza – senza stipendi da oltre sei mesi – e ciò ha creato uno spazio di azione diplomatica a lui favorevole, evidenziata dai colloqui del Cairo e dal fatto che è stato proprio lui, da Ramallah, ad annunciare il via libera formale di Hamas alla tregua. Incassato tale risultato, nelle vesti formali di presidente di un Governo di unità nazionale Fatah-Hamas, Abu Mazen ha ripreso sul terreno del negoziato con Israele lo stesso cammino iniziato in precedenza. Annunciando dal podio dell’Assemblea Generale dell’ONU l’intenzione di abbandonare la formula di Oslo dei negoziati bilaterali per perseguire l’approvazione di una risoluzione del Palazzo di Vetro per sancire la “sovranità della Palestina” su tutti i territori di Cisgiordania e Gaza, inclusa Gerusalemme Est. Se gli USA dovessero opporre il veto al Consiglio di Sicurezza, Abu Mazen è intenzionato a portare la risoluzione in Assemblea Generale – dove nel 2012 ottenne lo status di Stato non-membro per la Palestina – e il “piano” prevede anche di “denunciare Israele” per “crimini di guerra” se non dovesse rispettare il voto. Per il Dipartimento di Stato, il passo compiuto da Abu Mazen è “offensivo” nei confronti degli Stati Uniti e “lede alle fondamenta il negoziato di pace”. Ma la realtà è che Abu Mazen guarda oramai oltre Washington, riferendosi spesso alla necessità di “coinvolgere altri attori internazionali” non limitandosi più ad avere “un unico mediatore”. Ciò significa che l’Autorità Palestinese (ANP) ha perso fiducia nell’amministrazione Obama fino al punto di cercare attivamente atri interlocutori. Interessanti, al riguardo, i colloqui di Abu Mazen a Mosca con Vladimir Putin e, più in generale, la convinzione dei vertici dell’ANP e di Al-Fatah di poter ottenere nella cornice dell’ONU maggiori concessioni da Israele.

Netanyahu e l’intesa con le potenze sunnite
Benjamin Netanyahu ritiene che il fallimento della mediazione di Kerry in aprile sia stato determinato dal rifiuto di Abu Mazen di fare qualsivoglia concessione: i palestinesi continuano a chiedere il diritto al ritorno di tutti i profughi del 1948 (e dei loro discendenti), il controllo dell’intera Gerusalemme Est inclusi i luoghi più sacri dell’ebraismo (come il Muro Occidentale) e lo smantellamento di gran parte degli insediamenti in Cisgiordania dove oggi risiedono oltre 250mila israeliani. Per Netanyahu si tratta della conferma di una linea negoziale che “rifiuta concessioni” sin dai tempi del “no” di Yasser Arafat a Camp David e Taba, nell’anno 2000, e spinge i palestinesi verso posizioni estreme. È un’interpretazione delle posizioni palestinesi che gode di un largo sostegno nell’opinione pubblica nazionale in ragione del diffuso timore che la nascita di uno Stato palestinese in Cisgiordania possa riproporre dentro Gerusalemme l’affermarsi di uno “Hamastan” simile a quello di Gaza. L’imporsi di gruppi e movimenti jihadisti attorno ai confini di Israele – da Al-Nusra sul Golan a Bayt al-Maqqdis nel Sinai fino alle cellule di ISIS scoperte in Giordania – aggiunge una situazione tattica diversa dal passato, che fa prevalere il timore di infiltrazioni di questi gruppi fra i palestinesi. Di questo tratta, in particolare, il rapporto della polizia israeliana pubblicato a inizio settembre sui “tentativi di ISIS di reclutare fra arabi israeliani e in particolare fra i beduini”, senza contare le manifestazioni pro-ISIS avvenute a Gaza nel mese di giugno.

Ma ciò che più pesa sulla posizione di Netanyahu è la crescente convergenza strategica con le maggiori potenze sunnite del Medio Oriente: Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. In comune c’è l’ostilità all’Iran nucleare, la convinzione di dover fermare in ogni modo i gruppi jihadisti – dai Fratelli Musulmani a ISIS – e lo scetticismo nei confronti di un’amministrazione Obama giudicata troppo accomodante con Teheran sul negoziato nucleare, quanto responsabile di aver commesso un grave errore nel sostenere in Egitto nel 2013 la presidenza di Mohammed Morsi, espressione diretta dei Fratelli Musulmani. La convergenza fra Israele e potenze sunnite ha più indicatori: dal basso profilo della Lega Araba sulle operazioni militari israeliane a Gaza contro Hamas alla cooperazione di intelligence israelo-saudita contro l’Iran e per difendere la Giordania da ISIS, fino ad una miriade di micro-episodi di notevole spessore, a cominciare dall’invito esteso in febbraio dagli Emirati Arabi Uniti a Shimon Peres – allora presidente di Israele – ad aprire in videoconferenza da Gerusalemme la conferenza sulla sicurezza regionale fra gli Emirati del Golfo. In tale cornice, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi – nemico giurato dei Fratelli Musulmani – sta portando la cooperazione di sicurezza con Israele a livelli senza precedenti. Da quando si è insediato, adopera il pugno di ferro contro i jihadisti nel Sinai, ha chiuso ermeticamente i tunnel fra il Sinai e Gaza, ha privato Hamas di ogni sostegno logistico ed ha affermato, pubblicamente, che “spetta all’Egitto impedire attacchi dal nostro territorio verso Israele perché siamo una nazione sovrana”. Sono elementi che contribuiscono a comprendere perché Netanyahu guarda alle potenze sunnite come a degli alleati strategici capaci – nel medio periodo – anche di poter sbloccare il negoziato con i palestinesi, con maggiore efficacia rispetto a quanto finora riuscito agli Stati Uniti.

One state solution
La corsa di Abu Mazen verso l’ONU e le convergenze Israele-sunniti avvengono sullo sfondo di una crescente sfiducia di entrambi nelle capacità di mediazione dell’amministrazione Obama, ma c’è dell’altro. Sebbene né Netanyahu né Abu Mazen lo affermino, entrambi stanno perdendo fiducia nella soluzione dei “due Stati”, alla base degli accordi di Oslo siglati nel settembre 1993 a Washington. Il motivo è che, entrambe le parti, sentono di poter ottenere di più dalla one state solution. I palestinesi sulla base della demografia e della convinzione che “rispettando i diritti umani in tutta la Palestina” sarebbero alla fine loro a guidare uno Stato binazionale. Basta passeggiare per Ramallah, Nablus o Gerico, o entrare negli atenei di Abu Dis e Bir Zeit, per accorgersi della popolarità della one state solution. E sul fronte opposto la situazione è quasi analoga, perché la popolazione degli insediamenti ebraici non solo cresce a ritmi vertiginosi – secondo lo studioso Yoram Ettinger ritmi addirittura superiori rispetto agli arabi – ma esprime un crescente numero di leader, politici e militari, che tendono ad avere largo seguito nel Paese. Senza contare che l’entità delle infrastrutture create – e in continuo ampliamento – da parte di Israele rende difficile ipotizzare uno smantellamento della presenza ebraica sul modello di quanto avvenne nella Striscia di Gaza nel 2005 per scelta dell’allora premier Ariel Sharon.