Il 47% degli americani disapprova il modo in cui il presidente Obama sta gestendo la marea nera nel Golfo del Messico, e il 48% è scettico sul modo in cui affronta la crisi economica. Il 59% non crede che la Casa Bianca abbia in mente un piano per arginare i danni della Deepwater Horizon. Il sondaggio diffuso lunedì 21 giugno da New York Times / Cbs News fornisce la testimonianza più concreta della situazione in cui si trova l’uomo che ha fatto il suo ingresso trionfale a Washington all’insegna del “change”. Un altro sondaggio condotto, una settimana prima, da Public Policy Polling (Ppp) – un’organizzazione di simpatie democratiche – su un campione di cittadini della Louisiana rivela che il 62% degli intervistati è critico verso la gestione dell’emergenza: un livello superiore (cioè peggiore) a quello conquistato da George W. Bush, che all’indomani di Katrina ottenne, in un’indagine svolta sempre da Ppp, il 58% di “niet”. Risultati confermati da una terza fonte, Rasmussen Reports, secondo cui il gradimento del presidente è ai minimi dalla sua elezione, cioè al 42%. Ancora più preoccupante, è ai massimi la distanza tra gli ultrà di Obama (24%) e coloro che lo disapprovano fortemente (44%).
Sarebbe ingenuo, naturalmente, giudicare un presidente dagli indici di gradimento che ottiene, specie in tempi difficili. Ma sarebbe ingenuo anche ignorare del tutto i segnali di sfiducia che emergono con sempre più vigore dall’America profonda. Del resto, è stato lo stesso Obama a politicizzare l’incidente alla piattaforma della Bp, nel momento in cui ha rilasciato dichiarazioni come questa: “mi prendo la responsabilità. E’ il mio lavoro garantire che venga fatto tutto il necessario a fermare (la perdita)”. O quando ha cercato facili capri espiatori – come Elizabeth Birnbaum, capo del Minerals Management Service, cacciata senza troppi complimenti. O quando, non reggendo la pressione, si è infuriato urlando, in pubblico e in privato, di desiderare più di tutto “un sedere da prendere a calci”.
Parallelamente al nervosismo di Obama, scorre la sua crescente consapevolezza della distanza abissale tra teoria e pratica della politica. La teoria suggerisce: mai sprecare una buona crisi (per riprendere le parole del suo capo dello staff, Rahm Emanuel, all’indomani delle elezioni, in merito alla recessione globale). Specie quando il pubblico americano, pur scettico verso il presidente, di fatto si allinea, sulla scia emozionale degli uccelli inzuppati di greggio, dietro la richiesta di una “rivoluzione verde”.
Capita così che Obama, uomo costantemente sintonizzato sulla lunghezza d’onda del suo elettorato, sappia e voglia cogliere questa richiesta e la metta al centro del suo discorso alla nazione, il 15 giugno 2010: “mettere fine alla secolare dipendenza dell’America dai combustibili fossili”. Due note lessicali: primo, Obama parla di “addiction”, non “dependence”, facendo proprio quindi il linguaggio impiegato da Bush nel discorso sullo Stato dell’Unione del gennaio 2006; secondo, parla di combustibili fossili in generale, segnando un obiettivo più ambizioso rispetto ai predecessori – da Richard Nixon in poi – che si erano accontentati di prendersela col petrolio. Tutto ciò serve a compiacere il pubblico e galvanizzare la componente ambientalista della sua maggioranza, oggi più che mai scatenata grazie all’insperato aiuto del disastro nel Golfo del Messico.
Gli esegeti dell’obamismo, però, hanno notato che, accanto alla durezza delle parole (la teoria della politica), c’è una estrema moderazione nelle promesse (la pratica della politica). Obama spende molto tempo sul miraggio di un mondo ecologico e felice. La parola “clima” compare una sola volta, in relazione al “climate bill” approvato l’anno scorso dalla Camera. Però non compare mai la parola “Senato”, né emerge, direttamente o indirettamente, alcuna esortazione al Senato, appunto, perché approvi lo schema di controllo delle emissioni che il presidente aveva promesso in campagna elettorale.
La realtà è questa: Obama sa che indicare il grande sol dell’avvenire in un futuro imprecisato è relativamente facile. Ottenere risultati concreti nel breve termine, molto meno. Al Senato, i numeri per approvare la riforma sono ben più che risicati. I democratici possono contare su una maggioranza sufficiente ma interamente necessaria, e al proprio interno covano visibili mal di pancia – specie da parte dei rappresentanti dei “coal states”. Se n’è avuto una dimostrazione il 10 giugno, quando le forze democratiche sono appena bastate per sconfiggere una mozione della repubblicana Lisa Murkowski, che avrebbe sbarrato la strada al tentativo dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente (Epa) di regolamentare la CO2. Al di là dei tecnicismi, il dato politico è che il risultato della votazione – 47 contro 53 – ha visto sommarsi ai quarantuno repubblicani anche sei democratici, tre dei quali erano addirittura firmatari della proposta, mentre altri sono stati in bilico fino all’ultimo. La sconfitta è stata evitata solo grazie alla mediazione del leader democratico, Harry Reid, che è dovuto scendere in campo direttamente per sostenere il progetto parallelo di Jay Rockefeller, presidente democratico della Commissione Commercio che ha votato a favore della mozione Murkowski (che sospende per due anni i poteri della Epa sulla CO2). Sulla carta è stata una vittoria democratica, ma non senza morti e feriti.
Paradossalmente, proprio l’incidente della Bp rende le cose più difficili: Obama è stato praticamente costretto ad annunciare una moratoria di sei mesi sull’offshore drilling, ed è probabile che, almeno in parte, maggiori restrizioni verranno mantenute. A partire dall’improvviso retromarcia sulle aperture di pochi mesi fa, quando la Casa Bianca aveva annunciato la rimozione dei vincoli su alcune aree costiere precedentemente off limits: quantitativamente piuttosto limitate, ma significative sotto il piano dei simboli. Di fatto, la mano tesa di Obama era il segno di un equilibrio che vedeva al centro uno scambio con un pezzo significativo del mondo dell’energia: allentamento delle briglie sulla produzione domestica contro la disponibilità ad accettare un tetto alle emissioni. Venendo meno il “do”, cade anche il “des” e crolla il fragile castello costruito pazientemente dallo staff del presidente.
A questo si aggiunge l’incognita delle elezioni di mid term. Molti si aspettano un arretramento dei democratici. Più che il se, dunque, rileva il quanto: se i repubblicani faranno man bassa, difficilmente le ambizioni climatiche di Obama potranno trovare soddisfazione. Anche perché, mentre il fronte democratico si sta sfilacciando tra le ambizioni dei più estremisti e le pulsioni pragmatiche dei realisti, quello repubblicano sembra invece compattarsi sull’onda dei Tea Party. Dunque, mentre non sorprende la presenza di dissidenti nel partito dell’Asinello, è assai improbabile che l’Elefantino porti al Congresso uomini men che disposti a fare opposizione dura, senza nulla concedere all’attuale amministrazione. Al presidente restano poche settimane per giocare le sue carte: nel momento in cui l’attività parlamentare entrerà nel cono d’ombra delle urne, le probabilità di ottenere il “climate bill” precipiteranno. Obama continuerà a parlare di una società libera dagli idrocarburi, ma tra il dire e il fare potrebbe esserci di mezzo il Golfo del Messico.