Proprio nelle ore in cui il presidente del Venezuela Hugo Chávez faceva rientro a Caracas dopo oltre due mesi passati a curarsi a Cuba, in Ecuador il capo di Stato in carica Rafael Correa, al potere dal 2006, vinceva le elezioni presidenziali e si garantiva così un secondo mandato fino al 2017. Il suo partito, Alianza PAIS, ha conquistato la maggioranza assoluta all’Assemblea Nazionale.
La coincidenza temporale tra il ritorno in patria di un Chávez malato, forse morente, e la vittoria di un Correa pieno di energia – che ha dedicato il trionfo proprio a Chávez – ha portato acqua al mulino di quanti sostengono che il presidente ecuadoriano sia l’erede regionale del colonnello “bolivariano”. In realtà, malgrado alcune similitudini nell’agenda politica dei due capi di Stato, tra il Venezuela di Chávez e l’Ecuador di Correa ci sono differenze abbastanza nette. Il secondo non è e non sarà solo una replica del primo.
Entrambi i presidenti sono entrati in carica in una fase di profonda instabilità e debolezza dei rispettivi paesi e sono stati in grado di porvi termine, assicurandosi numerose vittorie elettorali in competizioni regolari. Entrambi hanno promosso una modifica della Costituzione che tra l’altro ha permesso loro di candidarsi dopo il primo mandato. Entrambi hanno portato avanti politiche di vigoroso intervento statale nell’economia a sostegno delle classi più povere, non disdegnando (soprattutto in Venezuela) il ricorso a nazionalizzazioni. Entrambi utilizzano una retorica incendiaria nei confronti dell’opposizione (e, soprattutto nel caso di Chávez, degli Stati Uniti) e misure intimidatorie nei confronti della stampa.
Infine, entrambi hanno rischiato di essere esautorati: il presidente venezuelano ha subìto un tentato (e fallito) golpe ai suoi danni nel 2002 ed è stato re-instaurato dopo meno di due giorni grazie all’appoggio delle forze armate. Correa ha subìto un breve ammutinamento delle forze di polizia che chiedevano un aumento di stipendio; la protesta non ha avuto conseguenze, anche grazie all’intervento dell’esercito a sostegno del presidente.
Venezuela ed Ecuador sono legati nella Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America (ALBA), il progetto voluto da Fidel Castro e Hugo Chávez per costruire in America Latina un’alternativa al modello neoliberista statunitense. Caracas e Quito sono inoltre membri di altre due organizzazioni emisferiche nate per marcare l’indipendenza dagli Stati Uniti: la Comunità Latinoamericana delle Nazioni (CELAC) e l’UNASUR, che comprende tutti i paesi sudamericani.
Pur essendo un sodale di Chávez, fino a poco tempo fa Correa aveva preferito tenere un profilo relativamente più basso a livello internazionale (entrando nell’ALBA solo nel 2009), con qualche eccezione. Nel marzo 2008 la Colombia condusse un attacco aereo non autorizzato contro un accampamento della guerriglia delle FARC situato in territorio ecuadoriano. Quito mobilitò le truppe; la crisi rientrò con le scuse dell’allora presidente colombiano Álvaro Uribe.
In questi anni sono state allacciate relazioni diplomatiche con la Repubblica Islamica d’Iran.
Infine, nel 2008-2009 l’Ecuador ha rinegoziato quella parte del proprio debito pubblico estero che considerava “illegittimo”, offrendosi di riacquistare i bond al 30-35% del loro valore. Questa mossa – cui oltre il 90% dei creditori ha acconsentito – ha permesso a Quito di migliorare i conti dello Stato, anche se ha tagliato fuori il paese dai mercati finanziari internazionali. Il loro posto in questi anni è stato preso dalla Cina, che è diventato il principale prestatore bilaterale dell’Ecuador. Pechino finanzia prevalentemente opere infrastrutturali e spesso accetta come contropartita – invece del denaro – il petrolio, di cui il paese andino è 24esimo esportatore al mondo.
Il rapporto di Correa con gli Stati Uniti è diverso rispetto a quello di Chávez per motivi nazionali e personali: il dollaro statunitense è anche la moneta dell’Ecuador, per una decisione presa nel 2000 e assai criticata – ma mai revocata – dall’attuale presidente. Correa ha studiato e vissuto negli USA, conseguendo un dottorato in economia presso la University of Illinois at Urbana-Champaign. Il suo profilo non è massimalista e dogmatico come quello del colonnello venezuelano ma è quello di un economista pragmatico che, per quanto contrario ad alcuni aspetti del neoliberismo, non ha intenzione di smantellare il libero mercato.
Questa diversità non ha comunque impedito a Correa di prendere decisioni poco gradite agli Stati Uniti: dal ritiro, nel 2009, della concessione per l’uso della base militare di Manta (che Washington sfruttava dal 1999 per operazioni antidroga), all’espulsione dell’ambasciatrice Heather Hodges per un suo commento trapelato via WikiLeaks, fino all’asilo diplomatico concesso al fondatore stesso di WikiLeaks, Julian Assange, presso l’ambasciata ecuadoriana di Londra. Correa ha dichiarato che, se arrivasse una richiesta di asilo da parte del presidente siriano Bashar Assad, il suo paese la “valuterebbe responsabilmente”.
La protezione concessa ad Assange e quella paventata ad Assad hanno attirato le attenzioni mondiali sull’Ecuador e sul suo presidente; il contemporaneo peggioramento delle condizioni di Hugo Chávez ha portato alcuni a ritenere che possa essere proprio lui l’erede politico del capo di Stato venezuelano. Ma oltre alle differenze enumerate finora, due fattori rendono insostenibile il paragone: l’ideologia e il denaro.
Chávez ha improntato la sua azione politica ad un forte (per quanto non chiarissimo) disegno ideologico: il socialismo del XXI secolo. Il corollario geopolitico di questa teoria almeno formalmente anti-capitalista è stato la nascita di un progetto che contrastasse l’egemonia degli Stati Uniti in America Latina e ponesse il Venezuela al vertice di un asse energetico-politico regionale. Questo progetto non si è realizzato per vari motivi: l’opposizione del Brasile, il calo del prezzo del petrolio (principale asset venezuelano), la malattia dello stesso Chávez. Ciò non toglie che il colonnello bolivariano avesse in politica estera un obiettivo molto più ambizioso della semplice riaffermazione della sovranità nazionale.
Nel caso dell’Ecuador, invece, è stato lo stesso Correa a smentire di avere propositi di leadership regionale. Pur condividendo alcuni aspetti del socialismo del XXI secolo, la “rivoluzione cittadina” non varcherà i confini statali. In questi anni Quito non si è mai presa la responsabilità di guidare l’America Latina, e il presidente ha messo in chiaro che le cose in futuro non cambieranno.
Non bastassero le azioni e le dichiarazioni di questi anni, i dati economici fondamentali (si veda ad esempio il World Factbook 2012 della CIA) sgombrano il campo da ogni dubbio. Nel 2012 il PIL dell’Ecuador è stato pari a 70,8 miliardi di dollari, contro i 338 del Venezuela; l’export di Quito si è avvicinato ai 24 miliardi di dollari, contro i quasi 97 di Caracas. Per quanto riguarda la principale fonte di ricchezza dei due Stati, l’Ecuador è 30esimo al mondo per produzione di petrolio, 24esimo per la sua esportazione, 22esimo per le riserve confermate; nelle stesse graduatorie il Venezuela è rispettivamente 14esimo, decimo e terzo.
In breve, la potenza economica del paese di Chávez è almeno quadrupla rispetto a quella del paese di Correa. Il Venezuela ha potuto accarezzare per qualche anno il sogno di conquistare la leadership regionale finanziando o rifornendo di petrolio i suoi alleati, compreso lo stesso Ecuador. Anche se volesse, Correa non dispone delle risorse economiche ed energetiche per tentare di emulare Chávez.
La posizione geografica dell’Ecuador infine, per quanto l’affaccio sul Pacifico faciliti i legami commerciali con la Cina e l’Asia, è più periferica di quella del Venezuela, che condivide la frontiera con il Brasile e al contempo può esercitare la sua influenza sui Caraibi.
La vittoria di Rafael Correa alle elezioni presidenziali è quindi rilevante principalmente per l’Ecuador. Sul piano internazionale, essa ci dice che – in certi paesi dell’America Latina – una politica impostata sull’attenzione verso le classi più povere e sull’affermazione della sovranità è elettoralmente vincente e capace anche di oscurare le preoccupazioni per la libertà di stampa.
Ma, a prescindere dalle condizioni di salute di Chávez, non potrà essere Rafael Correa a guidare quel fronte bolivariano il cui destino appare tuttora legato al presidente venezuelano.