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Il capitalismo di oggi e la fortuna di un libro: Thomas Piketty

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Come sarebbe stato Karl Marx se avesse scritto Il capitale a 40 anni e fosse stato non solo senza barba ma anche perfettamente a suo agio nelle interviste televisive? Forse la storia del movimento operaio sarebbe stata diversa, soprattutto se i grandi economisti del suo tempo, e addirittura gli ex ministri dell’economia, avessero accolto la sua opera con entusiasmo.

Possiamo immaginarcelo guardando a ciò che è successo nelle ultime settimane negli Stati Uniti, dove Capital in the Twenty-First Century (con “Capital” scritto a grandi lettere rosse in copertina) del francese Thomas Piketty è il libro di saggistica più venduto da quattro mesi e, nella classifica del New York Times dei bestseller, viene subito dopo romanzi come Mr. Mercedes di Stephen King e autobiografie come Hard Choices di Hillary Rodham Clinton. Non capita tutti i giorni che un libro di 976 pagine scritto da uno straniero diventi contemporaneamente un caso editoriale, un caso politico e la ragione per una candidatura al Nobel per l’Economia.

Per chi segue i dibattiti sulla crescita della diseguaglianza, il nome di Piketty non è nuovo: benché relativamente giovane (43 anni), vent’anni fa era già professore al MIT di Boston, mentre nel 2001 pubblicava insieme a Emmanuel Saez Les hauts revenus en France au XXème siècle, Inégalités et redistribution, 1901–1998. Ma la pioggia di recensioni che ha preceduto il suo tour promozionale americano lo ha fatto scoprire anche al di fuori dell’università. Il suo successo, in un certo senso, è la versione 2014 del movimento Occupy Wall Street, benché, stavolta, si siano schierati sul fronte della ribellione anche personaggi dell’establishment come Lawrence Summers, ex segretario al Tesoro nell’amministrazione Clinton.

E proprio Summers ha riconosciuto l’immenso merito di Piketty nel rimettere l’economia con i piedi per terra grazie alla raccolta di una eccezionale quantità di dati, preziose serie di lungo periodo mai sistematizzate e interpretate in precedenza.

Ma di cosa parla Capital in the Twenty-First Century (pubblicato l’anno scorso in Francia con il titolo Le capital au XXI siècle, mentre in Italia è in uscita presso Bompiani)? In realtà poco del ruolo produttivo (“rivoluzionario” avrebbero detto Marx e Joseph Schumpeter) del capitale per la crescita economica, e quasi esclusivamente della distribuzione del capitale all’interno della società. Per arrivare a due conclusioni: primo, la diseguaglianza è fortemente aumentata negli ultimi anni, per ragioni interne alla dinamica stessa di funzionamento del capitalismo oltre che per scelte politiche dei governi, e quindi essa è destinata ad aumentare ancora; secondo, la crescita economica non tornerà ai livelli del dopoguerra, men che meno a quelli cinesi di oggi, e si assesterà su cifre modeste attorno all’1% (per l’Europa forse ancora meno, essenzialmente per ragioni demografiche, visto che una popolazione anziana consuma meno e non “traina” l’aumento del PIL).

Le due conclusioni, ovviamente, sono legate. La spiegazione teorica sta in una formula così concepita: r>g (r è maggiore di g) dove r è il rendimento del capitale e g la crescita del Paese. In estrema sintesi, in un’era in cui il rendimento del capitale è maggiore della crescita di un Paese aumenta lo stock di capitale e con esso la disuguaglianza: i frutti della crescita degli ultimi decenni sono stati “risucchiati” dall’1% più ricco della popolazione, quando non dallo 0,1%. È soltanto una rapida crescita economica, che coinvolga la maggioranza della popolazione, che può frenare la concentrazione della ricchezza in poche mani.

Inizialmente, solo il Financial Times ha tentato di mettere in discussione i dati di Piketty e la stessa idea che la disuguaglianza sia aumentata negli ultimi 40 anni; ma nessuno degli economisti intervenuti su questo punto negli Stati Uniti (da Paul Krugman a Joseph Stieglitz, da Kenneth Rogoff a Robert Solow) ha contestato la tesi di fondo di Piketty.

Una questione meno affrontata dai recensori è quella del rendimento del capitale e quindi della solidità della formula. Piketty stima che nel lungo periodo il rendimento del capitale nei Paesi esaminati sia fra il 3 e il 7% e porta a sostegno della sua affermazione le serie storiche su Gran Bretagna e Francia (che pubblica nell’appendice online al capitolo 6 del libro).

Questo significa che lo stock di capitale cui l’economista francese fa riferimento è misurato a valori di mercato e include sia il capitale utilizzato nell’economia a fini produttivi, sia il capitale inutilizzato, per esempio quello immobilizzato nelle abitazioni, o in terre non coltivate, che lo stesso Piketty valuta a circa metà del capitale totale. Questo approccio è però fonte di una certa confusione perché i prezzi di mercato ovviamente oscillano, spesso in modo violento e irrazionale: basti pensare alla “bolla” immobiliare degli anni Novanta in Giappone o all’euforia che periodicamente si impadronisce delle Borse. In queste situazioni il rendimento del capitale scende perché, supponiamo, una casa da 500.000 euro il cui valore si sia gonfiato fino a 1.000.000 di euro probabilmente continuerà a rendere come prima sul mercato degli affitti (che è legato alle possibilità di spesa dei potenziali inquilini, oltre che alle regolamentazioni in vigore). Inversamente, il crollo dei valori di mercato di azioni, obbligazioni, case e terre che appare nelle serie storiche di Piketty, dopo le guerre o durante la Grande Depressione fa salire bruscamente il rendimento del capitale (grafici 6.3 e 6.4).

Piketty potrebbe obiettare che nel lungo periodo le oscillazioni hanno poca importanza e questo è plausibile, ma la qualità e l’impiego prevalente dei capitali sono invece un problema chiave. Supponiamo infatti di avere un Paese con uno stock di capitale molto elevato ma prevalentemente investito in case (com’è l’Italia) e un Paese (il Qatar o la Norvegia) con vaste disponibilità liquide, ad esempio nella forma di fondi sovrani, che può impiegare ovunque nel mondo: il rendimento sarà simile in entrambi i casi? Difficile. È più probabile che là dove il capitale è utilizzato in impieghi produttivi, o in lucrosi investimenti nel Terzo mondo, i rendimenti siano molto maggiori. Questo significa che la qualità dello stock di capitale disponibile e le scelte su dove investirlo sono elementi chiave del rapporto tra capitale e reddito nazionale. In altre parole, le sorti di un Paese sono legate non solo alle istituzioni politico-amministrative (che possono favorire o frenare lo sviluppo) ma anche alle tecnologie adottate e alla loro diffusione: la provincia di Vicenza esporta quanto l’intera Grecia, l’intero Mezzogiorno italiano è un problema irrisolto a 150 anni dall’Unità.

Piketty sembra attribuire le differenze nel rendimento del capitale alla sola abilità dei suoi gestori, e spende parecchie pagine per spiegare come le università americane private più ricche come Harvard, Princeton e Yale, abbiano avuto rendimenti elevatissimi dei loro endowment grazie alla qualità dei consiglieri finanziari che sono in grado di assumere. Purtroppo l’autore non ci dice quali settori, o quali Paesi, abbiano rendimenti più elevati e perché. Possiamo ipotizzare, per esempio, che l’assenza di vincoli regolamentari o sindacali almeno inizialmente favorisca chi possiede capitale (questo rende di più se non deve preoccuparsi di rispettare l’ambiente e pagare decentemente i lavoratori), ma nel lungo periodo cosa succede? Le bolle speculative conducono alla distruzione di importanti stock di capitale, come è accaduto in Giappone negli anni Novanta e negli Stati Uniti nel 2007-8. Nel XX secolo sono state le guerre mondiali e l’inflazione a “riaggiustare” periodicamente il rapporto capitale/rendimenti. Che ruolo ha oggi l’avvento della rivoluzione tecnologica sull’impiego qualitativo del capitale e dunque sul suo rendimento futuro? Altri autori come Tyler Cowen, ad esempio, sostengono che siamo in una fase di “stagnazione” della produttività e che non saranno i social network a far ripartire la crescita e l’occupazione. Si tratta dunque di una questione complessa e di un dibattito aperto.

Le serie storiche di Piketty sono preziose ma non rispondono alla domanda di fondo che il barbuto e non-telegenico economista tedesco aveva posto 150 anni fa: esiste o no una tendenza generale alla diminuzione del saggio di profitto? Su questo il nostro autore è ambiguo: “la tecnologia moderna [consente] una diversità di usi del capitale che permette di accumulare una quantità enorme di capitale senza che il suo rendimento crolli completamente” (p. 354 ed. francese, corsivo nostro). Implicitamente, Piketty sembra d’accordo con Marx (“Troppo capitale distrugge il capitale” scrive in un altro punto) ma non affronta direttamente il nodo della questione, ovvero le nuove tecnologie.

Il che è abbastanza sorprendente se si mettono le sue tesi sulla disuguaglianza a confronto con la letteratura recente: in The Race between Education and Technology, Claudia Goldin e Lawrence Katz sostengono che è proprio la tecnologia la forza motrice delle crescenti disparità di reddito e che soltanto l’educazione può frenare l’allargamento della forbice tra lavoratori superqualificati e una massa crescente di persone inutili per il processo produttivo. Siamo entrati non solo in un’era di disuguaglianze estreme ma anche in quella della disoccupazione di massa, come ci rivelano i tassi di partecipazione al mercato del lavoro, in discesa da anni sia in Europa che negli Stati Uniti.

Per concludere: Piketty ha pubblicato un volume estremamente importante, che mette spietatamente in luce il principale fenomeno dell’economia moderna, cioè la creazione di abissali disuguaglianze; ma le sue conclusioni sembrano alquanto meccanicistiche, non ci dicono se davvero la strada dell’economia globalizzata sia già tracciata per i prossimi cento anni o se ci siano forze che si oppongono alla sua marcia. E non ci dicono se in qualche modo, da qualche parte, sia ancora possibile intervenire.