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Il calo dei due maggiori partiti nel giovane bipartitismo spagnolo

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Secondo la più recente inchiesta di opinione della società Metroscopia per l’autorevole quotidiano El País, se si votasse nel mese di aprile 2013 la somma dei voti dei due principali partiti spagnoli non raggiungerebbe il 50%. Nello specifico, il Partido popular (Pp) del premier Mariano Rajoy otterrebbe il 24,5% e il Partito socialista (Psoe) il 23%. Risultati che, se confrontati con le elezioni del novembre 2011, equivarrebbero a un calo, rispettivamente, del 19,6% e del 5,7%. Se fossero numeri “veri”, si tratterebbe di un terremoto politico.

Si tratta, tuttavia, di sondaggi. Come risaputo, è buona norma maneggiarli con cautela e non assumerli come fossero la fotografia esatta della realtà. È comunque legittimo ritenere che i dati rappresentino piuttosto fedelmente un sentire diffuso nel paese iberico, e ciò  potrebbe preludere, a un mutamento radicale del sistema politico che non lasci indenni né i populares né i socialisti.

L’insoddisfazione nei confronti del partito al governo cresce con il progressivo peggioramento delle condizioni economico-sociali. Malgrado i sacrifici chiesti alla popolazione, non si registra miglioramento alcuno né sul versante dei conti pubblici, né su quello dell’occupazione. Le persone senza lavoro diventeranno probabilmente quest’anno il 27% della popolazione attiva, mentre il debito pubblico veleggia oltre l’80% e il rapporto deficit/prodotto interno lordo sfiora il 7%. La recessione è lungi dall’essere superata: nella migliore delle ipotesi il 2013 vedrà una contrazione del PIL dell’1,4%. Per un partito che aveva ottenuto la fiducia degli spagnoli promettendo che, sostituendo il socialista José Luis Rodríguez Zapatero con il conservatore Rajoy alla guida dell’esecutivo, la Spagna avrebbe trovato la via d’uscita dalla crisi, le repliche della realtà sono durissime.

Come se non bastasse la drammatica situazione economico-sociale, ad aumentare il discredito dei populares presso l’elettorato sono episodi di corruzione di grande portata che vedono coinvolti dirigenti di primo piano, come l’ex tesoriere Luis Bárcenas, accusato di aver illecitamente finanziato il partito, arricchendo anche singoli esponenti. I sospetti sfiorano lo stesso Rajoy, che, tuttavia, sinora è riuscito a restare al riparo da accuse formali e ha reagito allo scandalo promuovendo alcuni cambiamenti nell’organizzazione interna del Pp. I quali, evidentemente, non sembrano sufficienti agli occhi di un’opinione pubblica poco disposta a tollerare, in tempi di politiche “lacrime e sangue”, anche solo l’eventualità che la classe dirigente faccia un uso improprio del poco denaro pubblico a disposizione.

Se Atene piange, Sparta non ride. Il partito che, in condizioni normali, dovrebbe trarre grande beneficio dalla difficoltà del principale avversario, versa in uno stato di salute egualmente cagionevole. I socialisti, infatti, appaiono lontani dall’aver trovato la strada che li conduca a recuperare il consenso perduto nell’ultimo anno e mezzo di governo Zapatero. La crisi che attraversano è tanto di idee, quanto di leadership. Essendo stati loro ad inaugurare, nel maggio 2010, la stagione dell’austerità, risultano poco credibili quando accusano il Pp di smantellare le conquiste sociali dei decenni passati per obbedire ai dettami della troika. Soprattutto se a formulare queste critiche è Alfredo Pérez Rubalcaba, l’attuale segretario del Psoe, uomo-forte dei governi di Zapatero dal 2006 sino al luglio 2011, quando fu nominato candidato premier. Una figura che gode di riconoscimento e stima, ma che è da tutti identificata con la precedente stagione.

I socialisti non sembrano possedere ricette migliori per affrontare la crisi economica, e appaiono anche paralizzati dal punto di vista strategico: per un verso, solidarizzano con molte delle proteste di piazza, per altro verso offrono la propria disponibilità ad accordi politici al governo “per il bene del Paese”. Nell’indecisione fra opposizione dura e spirito di collaborazione nazionale, il profilo del Psoe risulta decisamente sfocato.

La polemica interna è, per ora, (di poco) sotto il livello di guardia, ma l’immagine del partito è fortemente debilitata dalle divergenze con i socialisti catalani, inquadrati nella struttura federata ma indipendente del Partit dels Socialistes de Catalunya (Psc). Divergenze che riguardano il cosiddetto “diritto a decidere” dei cittadini catalani in relazione alla possibile indipendenza della regione dal resto della Spagna: un diritto non riconosciuto come tale dal Psoe, ma che è difeso, invece, dal Psc, favorevole allo svolgimento di un referendum sull’autodeterminazione della Catalogna (in occasione del quale darebbero indicazione di votare “no” alla secessione).

Di fronte alla crisi di Pp e Psoe, si fanno largo le altre due formazioni di ambito statale: Izquierda Unida (IU) e la centrista Unión Progreso y Democracia (UPyD). I dati dell’inchiesta di opinione a cui si è fatto già riferimento attribuiscono loro rispettivamente il 15,6% e il 13,7%. Intenzioni di voto che, se fossero realtà, supporrebbero un aumento dell’8,7% e del 9% rispetto alle elezioni del 2011. Tanto IU quanto UPyD appaiono partiti nelle condizioni di consolidare la loro forza attuale: non soffrono crisi di leadership, hanno una significativa coesione interna, e soprattutto possono vantare il fatto di non avere alcuna responsabilità nella gestione del paese iberico negli ultimi anni. A IU si avvicinano i settori sociali ormai in permanente mobilitazione da quasi tre anni, mentre UPyD incontra il consenso dell’elettorato centrista tradizionalmente oscillante fra Pp e Psoe.

Il quadro politico che eventuali elezioni produrrebbero avrebbe dunque caratteri di assoluta novità. Solo in due occasioni nella storia post-franchista spagnola è avvenuto che un terzo partito ottenesse un risultato a due cifre: nel 1979, quando il Partito comunista (Pce) conquistò il 10,7% dei suffragi, e nel 1996 quando IU (erede del Pce) raggiunse il 10,5%. Ora sarebbero addirittura due i partiti a superare abbondantemente la soglia del 10%. Inoltre, mai le due principali forze politiche hanno ottenuto, insieme, un risultato così basso come quello che avrebbero ora (il 43,5%): quello che più si avvicina ai livelli attuali risale alle prime elezioni libere dopo la dittatura, nel 1977, quando i conservatori della Unión de Centro Democrático del presidente Adolfo Suárez e il Psoe di Felipe González sommarono il 63,7% dei consensi.

La crisi attuale dei due grandi partiti spagnoli è ancor più significativa perché interrompe un’evoluzione in senso bipartitico del sistema politico che sembrava inarrestabile. L’auge del bipartitismo risale, non a caso, alla fase di maggiore prosperità economica del paese, a partire dal passaggio di secolo. Nel 2008, ben l’82,8% dei voti espressi era andato in favore di uno dei due principali partiti. Complice anche un sistema elettorale che favorisce le liste maggiormente votate, cinque anni fa molto sembrava indicare che i partiti medio-piccoli di ambito statale fossero destinati a scomparire, e il gioco politico destinato a ridursi all’alternanza fra Psoe e Pp, con le forze regionali a fare da comprimarie. Nulla di più lontano dallo scenario attuale.