international analysis and commentary

Il bicchiere mezzo pieno del voto afgano e le prossime incognite

275

A seconda dei punti di vista il bicchiere può essere mezzo vuoto o mezzo pieno. Nel complesso, le elezioni afgane del 5 aprile – per eleggere il presidente e rinnovare i 34 consigli provinciali del Paese – sono state un successo; c’è però qualche ombra e molte incognite, non solo per il probabile ballottaggio, ma per quanto accadrà subito dopo.

Gli elettori e la sfida della sicurezza
L’affluenza alle urne ha superato abbondantemente il 50%, il che è in genere considerato un buon risultato nei Paesi dove lo strumento elettorale risente della crisi endemica del concetto di rappresentanza, cioè nelle democrazie mature. Per un Paese come l’Afghanistan, che si affaccia da pochi anni su questa strada, può sembrare di per sé un risultato mediocre, ma la valutazione deve essere più complessa. Dei 12 milioni di aventi diritto, 7 si sono presentati alle urne; ma va ricordato che nel 2009 gli elettori che avevano infilato nell’urna la scheda (in quella contestatissima tornata elettorale) avevano di poco superato i 4 milioni.  In un Paese dove la guerriglia ha minacciato chiunque abbia voluto votare e dove anche in questa occasione si sono registrate più di un centinaio di intimidazioni e atti di violenza (con un bilancio di oltre una ventina di morti), recarsi alle urne è una scelta coraggiosa e difficile. Nel 2009, i talebani amputarono le dita di molti tra coloro che avevano votato. Questa volta, le immagini restituiteci dal Paese mostravano afgani e afgane che esibivano quel dito macchiato di inchiostro con orgoglio. Il dito marcato da una tinta indelebile – il sistema per evitare il doppio voto – è diventato un’esibizione di dignità democratica assai più che la prova di un broglio sventato.

In particolare, è un dato rilevante che a Kandahar, città del conflitto per eccellenza, l’affluenza abbia superato le aspettative.

Naturalmente la conta dei voti potrebbe presentare sorprese. Sarà lunga (non si avranno risultati certi prima del 24 maggio) e la Commissione elettorale aveva già ricevuto 200 contestazioni ufficialmente depositate nella sola giornata del voto (poi salite a 1200). Ma queste in gran parte riguardano gli orari di apertura dei seggi: dunque, nulla che per ora faccia pensare a una contestazione massiccia delle operazioni di voto. Le mosse dei talebani hanno incluso le minacce agli osservatori internazionali, e l’uccisione di nove civili all’Hotel Serena, centrale e fortemente protetto, il 20 marzo. È comunque proseguito il lavoro degli osservatori, come quello degli oltre 190mila soldati e poliziotti schierati a difesa delle urne. Considerato che questa tornata si è svolta senza la presenza alle urne dei contingenti internazionali (che pure restano presenti in forze sino alla fine dell’anno), ci sono segnali importanti sul fatto che la transizione è andata in porto con efficacia. Il voto era una prova del fuoco anche per le forze di sicurezza nazionali: superata.

Un’analisi compiuta della composizione del voto è ancora prematura, ma si può dire con certezza che conterà molto il segmento di voto femminile e la percentuale di giovani: due terzi degli afgani hanno meno di 25 anni e le nuove generazioni usufruiscono di strumenti impensabili solo quattro o cinque anni fa. Si è alzata la percentuale di persone istruite e di ingressi all’università. Social media e Internet, assieme alla televisione (anche questa una realtà recente come lo è la nascita e la proliferazione dell’attività giornalistica) hanno giocato un ruolo importante. Non con numeri enormi ma con percentuali interessanti, se è vero che 1,7 milioni di afgani utilizzano soprattutto Facebook e Twitter, e che 2,4 milioni hanno accesso alla rete. Ancora poco, ma se si considera che quasi 20 milioni di afgani usano il telefono (le linee fisse sono pessime ma quelle cellulari hanno sistemi avanzati), ciò significa che la comunicazione corre. E l’effetto passaparola è a volte in grado di rompere i dettami della tradizione.

I candidati e i prossimi passi
In un Paese dove la struttura tribale-famigliare ha ancora un peso enorme, capi villaggio e malek, signori della guerra e signori della terra, hanno sicuramente avuto un peso enorme nell’orientamento del voto. Su questa struttura, che comunque la modernità tecnologica ha contaminato, hanno puntato i candidati, specie i tre front-runner: Abudullah Abdullah, Ashraf Ghani e Zalmai Rassoul. Tra loro, nell’inevitabile ballottaggio, si sceglierà il presidente.

Tutti e tre hanno cercato di accrescere la capacità di raggiungere i voti in palio con un certo equilibrio sociale attraverso i due vicepresidenti proposti nel ticket: una miscela che ha fatto scegliere per quel ruolo anche persone poco presentabili, come rappresentanti di correnti islamiste radicali o di antiche signorie territoriali. Il caso più eclatante è quello di Ashraf Ghani: un passato alla Banca mondiale, modi e discorsi urbani e moderati improntati a realismo e pragmatismo, ma anche un apparentamento col generale Dostum, uomo dell’ex regime comunista di Najibullah poi passato ai mujaheddin e abilmente riciclatosi negli anni. In ogni caso, personaggio in grado di controllare centinaia di migliaia di voti nel Nord del Paese.

È il caso anche di Abdullah Abdullah, il medico personale di Ahmad Shah Massud ed erede spirituale dell’Alleanza del Nord che sconfisse i talebani nel 2001, apparentatosi con Mohammad Mohaqeq, mullah fondatore di un partito islamista entrato in rotta di collisione con Karzai (e con Ghani).

Più meditata la scelta di Zalmai Rassoul (che corre con Habiba Sarobi, stimata governatrice della provincia di Bamyan), il quale però ha la pecca di essere considerato il “cavallo di Karzai”. E che, alla vigilia del voto, si è avvantaggiato del ritiro di due candidati vicini al presidente (uno era il fratello di Karzai, Qayum) che hanno deciso di riversare il proprio peso appunto sull’ex ministro degli Esteri.

In effetti, ognuno dei candidati ha utilizzato l’antica bilancia etnico-tribale per assicurarsi voti, guardando più a quella che alla impeccabilità dei propri alleati. Chi non aveva radicate relazioni (come Rassoul e Ghani) si è infatti affidato, più o meno dietro alle quinte, a coloro che potevano garantire proprio una rete sul territorio (come nel caso di Dostum o appunto di Karzai). Chi voleva strizzare invece l’occhio all’islam radicale (è il caso di Abdullah) ha scelto un uomo potente nei circoli religiosi… Favori che bisognerà restituire.

Il nuovo presidente, chiunque egli sia, ha di fronte tre sfide colossali. La prima è il rapporto con la guerriglia, ossia la strategia di un piano di riconciliazione e la capacità di influire sui vicini di casa pakistani, attori importanti nella guerra afgana. Non c’è una traccia precisa di quel che i tre favoriti vogliano fare. Sia Ghani sia Abdullah sono fieramente anti-talebani o lo sono i loro sodali. Rassoul è ovviamente più in linea con la strategia di Karzai: un approccio morbido che porti all’apertura di un tavolo negoziale.

Connesso al rapporto con la guerriglia (complicato dai gruppi disomogenei del movimento talebano con agende diverse, manovrati dall’estero o semplicemente legati alla criminalità), c’è poi quello con gli alleati: Washington da una parte e Bruxelles (intesa soprattutto come sede della NATO) dall’altra. Tutti e tre i candidati hanno già detto di voler firmare il patto di partenariato strategico con gli Stati Uniti messo in stand-by da Karzai (e da cui dipende anche il patto tra Kabul e la NATO). Ma il tempo corre e si avvicina la scadenza di fine 2014 per la conclusione della missione ISAF. Inoltre la gestione di questo dossier accontenterà molti ma scontenterà altri, e complicherà il possibile rapporto con i talebani.

Infine c’è la sfida dell’economia. Per lo più ignorato, questo è il tasto più dolente: i giovani elettori sono gli stessi che, al ritmo di 400mila all’anno, entrano in un mercato del lavoro asfittico, minato dalla fine delle commesse internazionali e, negli ultimi mesi, entrato in una fase di stallo figlia proprio delle incognite legate alla nuova presidenza. E più ampiamente al destino del negoziato di pace e del rapporto con gli occidentali, visto che dagli alleati dipende il 90% del PIL del Paese. Anche a questi giovani elettori si dovrà dare una risposta: forse la più difficile.