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I volti del centotredicesimo Congresso americano

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Quando il centotredicesimo Congresso si riunirà per la prima volta a gennaio, l’immagine dei due schieramenti, democratico e repubblicano, sarà ancora più in contrasto del solito. In un certo senso i rappresentanti dei due partiti maggiori incarneranno anche fisicamente le diverse visioni del paese.

Sul fronte democratico sono aumentati i deputati di sesso femminile e quelli espressione delle minoranze etniche, che per la prima volta saranno complessivamente di più dei uomini bianchi. Il contingente repubblicano sarà invece composto prevalentemente da uomini bianchi, anche in virtù della perdita di un deputato latino, di uno afro-americano e della sconfitta o rinuncia di sei deputate donne. Questa diversità demografica si andrà probabilmente a riflettere nel comportamento di voto dei parlamentari, specie su questioni riguardanti la scuola, la spesa pubblica, la sanità e l’immigrazione. Quello che verrà inaugurato il 3 gennaio è il parlamento con la più alta presenza femminile nella storia degli Stati Uniti. Le deputate saranno infatti 81, le senatrici 20. Complessivamente si tratta di 11 parlamentari in più rispetto al Congresso uscente, per una percentuale femminile che sarà pari a circa il 20% dell’intera assemblea.

Si è scritto molto di come le minoranze etniche siano state tra le vincitrici dalle elezioni di novembre. Al Senato saranno presenti tre rappresentanti ispanici: oltre al Repubblicano Marco Rubio della Florida (che non era in scadenza di mandato nel 2012) è stato riconfermato il Democratico Robert Menendez che sarà accompagnato a Washington anche dal Repubblicano Ted Cruz, primo latino eletto in Texas per una così alta carica. Per quanto riguarda la Camera, gli ispanici possono vantare un saldo positivo di nove seggi, potendo contare ora su 28 deputati. Anche gli americani di origine asiatica possono ritenere positivo l’esito elettorale: alla Camera avranno 12 rappresentanti fronte dei nove uscenti mentre al Senato hanno riconfermato i due senatori che già detenevano alle Hawaii (il veterano Daniel Inouye – non in scadenza – e la neoeletta Mazie Hirono, prima donna di origine asiatica a essere eletta al Senato). Meno soddisfatti possono dirsi gli afro-americani che, storicamente, sono la minoranza razziale meglio rappresentata al Congresso. Inizialmente le urne avevano ridato loro gli stessi 44 seggi occupati nella Camera uscente (che erano divenuti 43 in marzo dopo la morte di Donald Payne), ma circa due settimane dopo il voto sono arrivate le dimissioni di Jesse Jackson Jr. dell’Illinois, ritiratosi dalla politica per ragioni di salute. Il loro risultato complessivo può considerarsi deludente: degli otto afro-americani in corsa in distretti competitivi, solo Steven Horsford in Nevada è riuscito a superare l’avversario bianco.

Intanto, ritorna un afro-americano al Senato, il primo dal 2010, quando il controverso Roland Burris (nominato due anni prima dal governatore dell’Illinois per occupare il seggio reso vacante da Barack Obama) decise di ritirarsi dalla politica. Ma non si tratta direttamente di un risultato elettorale: l’Onorevole Tim Scott del South Carolina, un repubblicano, diventerà infatti senatore l’anno prossimo perché scelto dal Governatore Nikki Haley per sostituire Jim DeMint, rieletto a novembre ma poi immediatamente dimissionario (DeMint è stato nominato presidente della Heritage Foundation, un think tank conservatore di Washington).

A parte i neri, quindi, questa tornata elettorale ha visto un incremento complessivo del numero dei parlamentari che appartengono a minoranze etniche. Ma la strada per una loro piena rappresentanza è ancora lunga. Se questa infatti dovesse essere proporzionale alla popolazione residente sul territorio nazionale, gli asiatici avrebbero dovuto già eleggere 31 deputati e gli ispanici ben 86.

Un altro interessante misuratore della diversità culturale del centotredicesimo Congresso è relativo all’affiliazione religiosa dichiarata dagli eletti. I protestanti rappresentano ancora la maggioranza dell’assemblea, ma cominciano a essere presenti anche fedi “inusuali” per il parlamento degli Stati Uniti. La già citata Mazie Hirono sarà la prima senatrice buddista della storia americana, mentre Tulsi Gabbard è il primo parlamentare induista. I 32 congressmen di religione ebraica, sebbene in calo di 7  unità rispetto a due anni fa, continuano a sovra-rappresentare la loro fede di appartenenza, così come quelli di religione mormona, confermati a quota 15. Qualcosa è cambiato invece per quel che riguarda gli agnostici e gli atei, da sempre sottorappresentati (gli americani che si dichiarano non religiosi sono circa il 20% della popolazione). Sono infatti 10 i parlamentari del nuovo Congresso che hanno  rifiutato di rispondere alla domanda sulle loro credenze religiose, e la neo-eletta Kyrsten Synema dell’Arizona è stata l’unica ad aver dichiarato di non essere affiliata ad alcuna religione.

Quello della sottorappresentazione di atei, agnostici e “non religiosi” è una caratteristica storica della politica americana. L’assenza di una fede religiosa dichiarata funziona ancora da ostacolo all’elezione a cariche pubbliche negli Stati Uniti. E anche fedi diverse da quella protestante hanno a lungo rappresentato un handicap in campagna elettorale. Basti pensare che in oltre duecento anni di storia vi è stato un solo presidente cattolico (Kennedy) e un solo vicepresidente cattolico (Biden), e nessun’altra religione minoritaria è mai stata rappresentata nei due massimi uffici.

Su un piano più strettamente “politico”, non ha ricevuto la dovuta rilevanza mediatica l’ottimo risultato ottenuto dai parlamentari affiliati al Tea Party. Nel Congresso uscente il Tea Party caucus, cioè il gruppo parlamentare che raccoglie molti degli esponenti politici appoggiati dal Tea Party, poteva contare su4 senatori e 60 deputati. Al Senato nessuno di questi era in scadenza di mandato. Alla Camera dei Rappresentanti, dei 55 deputati del Tea Party in corsa per la rielezione, appena 4 hanno fallito la riconferma. Gli altri sono stati tutti rieletti e in molti casi anche agevolmente: Joe Barton in Texas viene riconfermato ininterrottamente dal 1985; Bill Cassidy in Louisiana ha sfiorato l’80% dei consensi; l’ottantunenne Howard Coble in North Carolina ha ottenuto il suo quindicesimo mandato. Altri ancora hanno corso unopposed, cioè senza un rivale democratico, talmente era forte la loro candidatura (tra questi Tim Huelskamp in Kansas e Joe Wilson in South Carolina).

Data tale polarizzazione a livello demografico e politico, è  quindi probabile che il centotredicesimo Congresso sarà radicalizzato come e quanto il precedente. La riconferma di una così nutrita pattuglia di parlamentari affiliati al Tea Party non è infatti di buon auspicio per gli sforzi bipartisan auspicati  dal leader repubblicano alla Camera John Boehner. Nell’immediato, è possibile che sul fiscal cliff  il compromesso alla fine si raggiunga, ma solo per la rilevanza economica della questione in oggetto. Da gennaio è invece lecito attendersi che alla Camera dei Rappresentanti sarà molto difficile assistere ad accordi tra Democratici e Repubblicani, proprio perché le ali centriste dei due schieramenti si sono ulteriormente ridotte. Esiste comunque una differenza sostanziale rispetto agli anni scorsi: Barack Obama non dovrà più preoccuparsi di farsi rieleggere e potrà quindi abbandonare quella prudenza che ha caratterizzato il suo primo mandato. Non sarà quindi il Congresso ad avere un’impronta politica nuova, ma la presidenza.