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I vertici asiatici mancati da Obama e il futuro del Pivot to Asia

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La stagione dei vertici, ben quattro concentrati in meno di una settimana, è passata sulla regione Asia-Pacifico come una rapida perturbazione, provocando danni rilevanti alla politica del Pivot to Asia inaugurata due anni fa dall’amministrazione Obama. Solo i prossimi mesi però potranno chiarire se si sono innescate davvero nuove dinamiche incontrollabili per Washington o se invece gli Stati Uniti saranno in grado di tappare tutte le falle apertesi in questi giorni. Gli Stati si considerano tuttora insostituibile come fattore di equilibrio e garanzia di crescita economica nell’area che sempre di più si configura come il vero motore della ripresa mondiale: vedremo ora se questa immagine corrisponde alla realtà.

La crisi del default americano, chiusasi il 17 ottobre, ha condizionato i quattro summit svoltisi tra il 7 e il 10 ottobre: quelli dell’APEC (Asia Pacific Economic Cooperation) e del TPP (Trans Pacific Partnership) a Nusa Dua, in terra indonesiana, e i successivi dell’ASEAN (Association of South-East Asian Nations) e dell’EAS (East Asia Summit), nel Brunei, con l’aggiunta degli annessi all’ASEAN, come l’ASEAN+3 (ovvero i 10 paesi membri più Cina, Giappone e Corea del Sud). I timori di una tempesta finanziaria che dagli Stati Uniti si sarebbe estesa al resto del mondo hanno riproposto i dubbi sulla precarietà di un “sistema” al cui centro si trova un Paese oberato da un debito astronomico. In più l’assenza del presidente Obama, risucchiato dai suoi problemi interni, ha avuto un impatto simbolico molto forte, ingigantendo l’immagine degli Stati Uniti come di un Paese “terzo” rispetto ai veri attori regionali. Difficile infatti non notare la disparità di interesse e di capacità propositiva in termini di collaborazione concreta tra la Cina e gli Stati Uniti. La prima è stata rappresentata all’APEC dal presidente Xi Jinping e nelle altre sedi dal primo ministro Li Keqiang; i secondi si sono limitati ad inviare il segretario di Stato John Kerry, il quale si è visto costretto a fornire verbali assicurazioni circa l’importanza che Washington continuerà ad attribuire all’Asia orientale. Per colmo di sfortuna poi è stato “azzoppato” da un tifone, giunto a impedirgli di chiudere la missione con una visita nelle Filippine che doveva sancire la ripresa in grande stile della alleanza – anche e soprattutto militare – tra i due Paesi a vent’anni dalla chiusura della super-base di Subic Bay.

La cosa ha suscitato delusione a Manila, anche perché la visita è stata cancellata per non rinviare quella successiva, a Kabul. Una prova in più, questa, agli occhi del presidente Benigno Aquino III non meno che degli altri alleati di Washington, che il Medio Oriente (nella sua accezione “allargata”) rimane prioritario agli occhi di Obama e che l’attuale amministrazione non sa, non vuole o non può voltare pagina sebbene la dipendenza energetica dal mondo arabo sia un capitolo chiuso. È chiaro a tutti infatti che Siria, Iran, Israele, Iraq, Afghanistan sembrano rallentare fin quasi a bloccare quello spostamento verso l’Asia e il Pacifico tanto pubblicizzato con il cambio di rotta del 2011. Lo stesso TPP, al quale Obama avrebbe voluto dare il definitivo suggello nell’incontro dei 12 partner previsto a margine del Forum APEC, ha segnato una pericolosa battuta di arresto. Sono in pochi ormai a credere che possa essere firmato un accordo generale entro la fine dell’anno (seppure senza entrare nello specifico dei dossier più delicati e venendo incontro a chi teme sconvolgimenti politici a causa dell’apertura improvvisa dei mercati). Addirittura, già vengono poste sul tavolo soluzioni alternative, come un TPP a più velocità: “Andremo avanti e forse non tutti saranno pronti alla data stabilita e potranno entrare in un secondo tempo”, ha detto a Nusa Dua il segretario al Commercio americano Penny Pritzker. Oppure si ripiega sulle zone di libero scambio bilaterali per un ventaglio calibrato di categorie: il flirt tra Australia e Giappone appare in questo campo suscettibile di produrre effetti concreti in poco tempo.

Intanto la Cina, che sul bilateralismo poggia gran parte della sua attuale smiling diplomacy, ha visto aprirsi ipotesi di partenariato nel campo del commercio e degli investimenti fino a ieri impensabili. L’ASEAN, che fino a ieri appariva politicamente orientata in modo quasi monolitico (unica eccezione la Cambogia) verso Occidente, comincia a mostrare crepe che l’intraprendenza cinese e gli yuan che l’accompagnano (investimenti nel 2012 per 4,5 miliardi di dollari) stanno allargando. Certo, non è ancora emerso con chiarezza un gruppo filo-cinese: lo dimostra il fatto che, a conclusione del vertice ASEAN, sia stata rinnovata la richiesta a Pechino di accettare un negoziato su base multilaterale, secondo i desiderata di Washington, circa la sovranità sul Mar Cinese meridionale. Ma gli anticinesi puri e duri si riducono ormai sostanzialmente a due: le Filippine e il Vietnam (col quale gli Stati Uniti hanno raggiunto proprio durante la stagione dei vertici un accordo di cooperazione nel nucleare civile). Xi, andando in Malaysia prima del vertice APEC, ha raccolto, annunciando una partnership strategica e una collaborazione perfino in campo militare, assai più di quanto abbia fatto Kerry. Pieno successo della diplomazia cinese anche in Indonesia, il gigante dell’ASEAN, dove Xi ha avuto l’onore, mai concesso a un capo di Stato straniero, di parlare di fronte al Parlamento e in cambio ha portato l’impegno a investire 30 miliardi dollari in settori chiave a partire da quello minerario.        

Ne deriva che la presa della Cina su reali e potenziali partner regionali tende a consolidarsi. Eppure, non tutti gli sviluppi in corso nella regione sono visti con favore da Pechino, a conferma che l’interdipendenza tra le due maggiori potenze del Pacifico non cessa di crescere (e di complicarsi).  In realtà la settimana nera per il Pivot to Asia di Obama ha aperto una fase di sostanziale standby diplomatico e la Cina, come tutti i Paesi dell’area, resta in nervosa attesa per vedere se la questione del default statunitense, per ora non risolta ma congelata, veda davvero una felice conclusione entro la deadline di febbraio. Se così non fosse, non si assisterebbe solo all’inizio della fine del credit bubble di Cina e Giappone, che detengono rispettivamente 1,21 e 1,14 trilioni di dollari del debito statunitense; si potrebbe anche avviare un concreto dibattito sullo smarcamento dello yuan dal dollaro come valuta di riferimento per le transazioni internazionali . Ne seguirebbero poi, a valanga, tutta un seria di smottamenti che Pechino teme quasi quanto Washington. La Cina infatti non potrebbe assumersi i compiti – primo tra tutti garantire la stabilità regionale – che ora competono agli Stati Uniti. Ne deriverebbe un vuoto che molti sarebbero tentati di riempire: anzitutto la Russia, che non gradisce l’avanzata diplomatica cinese in Asia centrale e che, proprio mentre tra Tokyo e Pechino il clima è orientato al brutto permanente, va stabilendo sempre più intensi rapporti con Tokyo. Il Giappone stesso non vede l’ora di accrescere la sua presenza militare nell’area, con o senza una revisione della Costituzione, e a ciò aggiunge un significativo attivismo diplomatico. L’India, da parte sua, attraversa una crisi economico-politica che potrebbe portare l’anno prossimo a un cambio di rotta con alla guida del Paese i nazionalisti hindu di Narendra Modi. Anche il Vietnam, in grande crescita, potrebbe unirsi alla cordata. Ognuno ha ambizioni e retroterra storico e geopolitico differenti, ma tutti hanno un elemento in comune: sono da sempre nemici o quantomeno avversari della Cina, con un passato di guerre e un presente di scarsa simpatia verso l’Impero di mezzo. Con loro, insomma, dialogo o compromessi sono molto più difficili che con gli americani.

È proprio dalle relazioni con Pechino, pertanto, che potrebbe ripartire il cammino di Obama verso l’Asia, tanto più che alla controparte cinese non manca la duttilità tattica. Ad esempio, pur sforzandosi di guadagnare proseliti per il progetto di Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), Pechino ha prospettato caute aperture nei confronti del TPP e ha richiesto formalmente di aderire ai negoziati del Trade in Service Agreement (TISA, l’accordo sui servizi che, avviato da Stati Uniti e Australia, vede oggi coinvolti nei negoziati circa 50 paesi). Circa le contese connesse alla sovranità su scogli e isolette del Mar Cinese meridionale, la Repubblica Popolare insiste a lanciare feroci critiche a Washington, accusata di ingerirsi in affari che non la riguardano, ma nel contempo ha accettato di dare l’avvio al negoziato su un “codice di condotta”. Forse è solo uno stratagemma per guadagnare tempo mentre prosegue la politica del fatto compiuto, ma intanto viene tenuto aperto il canale diplomatico.