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I tre nuovi Stati possibili d’Europa: Catalogna, Fiandre, Scozia

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L’Europa occidentale potrebbe assistere alla nascita di tre nuovi Stati nazionali in un breve lasso di tempo: Catalogna, Fiandre e Scozia. Un fatto decisamente insolito, perché i confini di questa parte del continente sono immutati dal 1945. La politica europea sarebbe pronta ad assorbire una tale trasformazione? Nonostante le rassicurazioni dei movimenti separatisti, l’inserimento di tre ex porzioni di paesi membri dell’UE all’interno delle strutture istituzionali che governano il continente sarebbe tutt’altro che semplice.

L’ascesa del separatismo in tre aree d’Europa così differenti ha in effetti alcuni significativi punti in comune. In tutti e tre i casi si tratta di regioni provviste di una forte identità culturale come retaggio di vicende storiche secolari, e oggi più ricche della media nazionale. Nell’ultimo sessantennio, però, non vi si registra la presenza di consistenti forze secessioniste, pacifiche o violente che siano – nulla a che vedere dunque con il terrorismo attivo nel Paese Basco o in Irlanda del Nord, ma nemmeno col semi-clandestino movimento separatista corso. Al contrario dell’autonomismo, che ha consentito cospicue devoluzioni di poteri e competenze amministrative, in Catalogna, Fiandre e Scozia l’indipendentismo è diventato una componente stabilmente importante dell’arena politica solo in anni recentissimi.

In questo cambiamento, la crisi economica ha giocato un ruolo fondamentale: l’idea che sfruttando in proprio le risorse economiche e le entrate fiscali locali la “regione” potrebbe garantire quei fondi e quei servizi messi in pericolo dalla congiuntura negativa (e dall’inefficienza dello Stato centrale), è condivisa dalla schiacciante maggioranza dell’opinione pubblica dei tre territori in questione.

Inoltre, in Catalogna, Fiandre e Scozia, i partiti portabandiera del separatismo rifiutano le argomentazioni e i toni xenofobi che tradizionalmente caratterizzano i partiti nazionalisti di tanti altri paesi europei. Una tale scelta ha permesso loro di travalicare i tipici recinti politici delle rivendicazioni localiste (i piccoli centri, l’elettorato conservatore) e penetrare nelle città e tra l’elettorato progressista. Questi partiti, oltre a spopolare nella provincia più profonda, si trovano ad essere i più votati anche nelle aree urbane di Barcellona, Anversa e Glasgow – fino a ieri considerate roccaforti inespugnabili di socialisti e laburisti.

Nelle tre “regioni” è un solo partito ad essersi fatto interprete (e guida) del nuovo orientamento dell’opinione pubblica; il resto del sistema politico locale si è adattato al cambiamento solo più tardi, con alterni risultati. Si tratta di CiU (Convergenza e Unione) in Catalogna, di una formazione fondata poco più di dieci anni fa nelle Fiandre (V-NA: Nuova alleanza fiamminga), e dello Scottish National Party (SNP) – marginale fino all’inizio degli anni Novanta.

Queste forze politiche, posizionabili a grandi linee tra le famiglie conservatrici e liberali, sono attualmente molto ben radicate nel proprio territorio di appartenenza, in cui godono di un consenso pari al 30-40% dei voti. Utilizzando il proprio potenziale di coalizione, sono state capaci di inserirsi e condizionare gli scenari politici nazionali: ciò gli ha consentito un maggiore accesso al potere amministrativo locale, che hanno potuto gestire senza i condizionamenti legati all’appartenenza nazionale – col risultato di consolidare il consenso.

È utile allora porsi un quesito: perché la naturale richiesta di maggiori competenze e risorse da gestire in ambito locale, propria di partiti localisti come quelli descritti, si è trasformata negli ultimi anni in una decisa spinta separatista? Gli Stati, colpiti dalla crisi economica, negano ulteriori concessioni agli enti locali (anzi, tenderebbero volentieri a ridurle); d’altra parte, questi partiti considerano inaccettabile la ri-centralizzazione, o comunque l’arresto dei processi di devoluzione e decentramento in corso. Non è dunque trascurabile l’ipotesi secondo cui abbiano sterzato su una linea più intransigentemente indipendentista (anche) in maniera strumentale, cioè per trattare con i governi centrali facendosi forti del più persuasivo degli argomenti: la minaccia della rottura dell’unità nazionale.

Ma, anche se l’obiettivo fosse davvero quello di offrire a comunità nazionali mal rappresentate nuove entità statali del tutto indipendenti, si tratta di una scommessa politica davvero rischiosa, dagli esiti per nulla scontati.

Per quanto riguarda la Scozia, l’ottenimento dell’indipendenza dovrebbe passare attraverso un referendum. Il leader dell’SNP, Alex Salmond, ha concordato con il premier inglese David Cameron che il voto si terrà nel 2014. Tuttavia, secondo i sondaggi non c’è in Scozia una maggioranza separatista (molti vorrebbero maggiore autonomia, ma non è su questo che si voterà); tutti gli altri partiti, legati a Londra, hanno iniziato una campagna pro-unione. Se l’esito del voto dovesse essere negativo, sarebbe la fine della carriera politica di Salmond e un rovescio gravissimo per i nazionalisti, che da anni puntano al referendum.

La Catalogna vorrebbe seguire il percorso scozzese. Qui, attualmente, c’è una maggioranza separatista sia nell’opinione pubblica che nel parlamento locale. Ma CiU, che ha avviato il processo politico, ha appena subito una dura sconfitta elettorale (a favore di una formazione ancora più indipendentista): ha perso la possibilità di controllare in esclusiva l’avvicinamento al referendum e rischia di pagare il conto salato di una radicalizzazione eccessiva dello scontro politico, se mostrasse di accontentarsi di obiettivi intermedi.

Nelle Fiandre, invece, il V-NA punta sulle elezioni politiche del 2014 per risultare il primo partito del paese (le Fiandre ospitano più della metà della popolazione belga) e impedire la formazione di un qualsiasi governo nazionale: fare previsioni sul risultato di quel voto risulta però impossibile.

Oltre alle incognite delle urne, sono soprattutto i dubbi degli altri paesi europei a pesare fortemente sulle aspettative di indipendenza di catalani, fiamminghi e scozzesi. Nelle capitali del continente, a cominciare da Berlino, si guarda con malcelata perplessità ad eventi che potrebbero destabilizzare paesi importanti dell’UE, come per ragioni diverse la Spagna e il Regno Unito, e precipitare così l’Unione in una nuova crisi di sfiducia: lo spezzettamento geografico che ne conseguirebbe dimostrerebbe una volta per tutte l’incapacità dell’Europa di accordarsi sui principi della solidarietà finanziaria.

C’è poi da considerare lo status dei nuovi paesi nei confronti dell’UE. I leader separatisti continuano a sostenere il principio della continuità all’interno dell’Unione dei loro futuri Stati. In realtà, un caso del genere non si è mai verificato, e non c’è risposta nei Trattati a un tale quesito giuridico; la stessa Commissione non si è ancora espressa al riguardo. La maggior parte delle interpretazioni, però, tendono a considerare che un nuovo Stato nasca giuridicamente al di fuori dall’UE, sebbene ne facesse parte in precedenza come porzione di un altro. Dovrebbe quindi chiedere l’ammissione e affrontare la conseguente procedura negoziale, la cui conclusione è condizionata dal voto all’unanimità dei paesi membri – compresi naturalmente gli ex paesi di appartenenza.

Appare perciò molto difficile che i Ventisette, molti dei quali ospitano al loro interno movimenti indipendentisti o forti minoranze culturali, decidano di rendere la vita facile a uno Stato fresco di secessione. I membri dell’UE non sono riusciti a esprimere una posizione univoca nemmeno sull’indipendenza del Kosovo – non ancora riconosciuta da Spagna, Slovacchia, Romania, Grecia e Cipro. È lecito dubitare che consentano ai tentativi di autodeterminazione catalana, fiamminga e scozzese di trasformarsi in altrettante storie di successo, da imitare in lungo e in largo nel continente europeo.