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I think tank americani alla prova dell’antipolitica

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Anche il sistema dei think tank americani è stato messo alla prova dal ciclone Donald Trump e dal populismo di sinistra di Bernie Sanders: i classici “pensatoi”, come è noto, sono in odore di “establishment”.

Un think tank, ricordiamolo, è in primo luogo un centro di ricerca indipendente – indipendente dal governo, sostenuto con fondi privati – che intende influenzare il processo di policymaking attraverso un lavoro di analisi e di diffusione di idee e proposte: è un tipo di organizzazione che si preoccupa di rendere fruibile ad alcuni target specifici – decisori pubblici, esperti, società civile, business community, stampa, opinione pubblica – il frutto complesso della propria attività di ricerca. “Università senza studenti”, che si danno l’obiettivo di influenzare chi conta nell’ambito di una specifica politica pubblica: soprattutto in tale aspetto specifico differiscono dall’accademia tradizionale.

Questo loro obiettivo primario – influenzare il policymaking, chi lo disegna e chi ne determina gli esiti – fa dei think tank, inevitabilmente, luogo di confronto tra élite. Tali per la posizione che occupano o per le risorse di conoscenza (“know how”, ma anche “know who”) in loro possesso. Anche quelli tra loro che si sono organizzati per avere un pubblico largo di fruitori e di sostenitori, oppure che si sono attrezzati per azioni di “advocacy” dal basso (a sostegno di questa o quella proposta di policy) sono di fatto un club ristretto, che al massimo mantiene una vocazione più forte al coinvolgimento dell’opinione pubblica (concentrandosi comunque su una comunicazione uni-direzionale). La natura stessa dei temi trattati dai think tank, nonché il livello di expertise che si necessita per poter accedere al dibattito che essi generano, ne fa delle istituzioni non accessibili a tutti, anche quando i loro prodotti sono liberamente disponibili sulle piattaforme web e i siti internet.

La loro essenza elitaria, il loro accostamento al mondo dell’establishment di Washington (al quale hanno sempre prestato idee e personale) sono fattori che, nel dibattito politico attuale degli Stati Uniti, metterebbero in cattiva luce chiunque. Questo è accaduto (soprattutto nel campo dei sostenitori di Sanders, che associano alcuni think tank al mondo “corporate” di Hillary Clinton); ma è anche accaduto che i think tank, in questo periodo, si siano preoccupati e interessati del populismo montante nel paese: a essere più esatti, alcuni di essi hanno avvistato l’emersione del “trumpismo” con largo anticipo.

Due scienziati politici americani, Norman Ornstein e Thomas E. Mann, lavorano da anni sul tema della polarizzazione ideologica dell’ambiente politico di Washington: i loro studi sul Congresso, assai citati e discussi, denunciano l’eccessiva radicalizzazione dei partiti americani, puntando l’indice soprattutto sul Partito Repubblicano.

La loro analisi descrive il caso americano come soggetto a una “polarizzazione ideologica asimmetrica”: le culture politiche degli esponenti di partito americani si sarebbero radicalizzate, ma in misura più netta nel campo politico repubblicano. Si dà il caso che i due siano anche due esponenti di altrettanti think tank di Washington: Ornstein lavora per il conservatore American Enterprise Institute e Thomas E. Mann per la centrista (a tendenza democratica) Brookings Institution. In passato hanno lavorato per il “AEI-Brookings Election Reform Project”, uno dei pochi progetti “ponte” tra i think tank di Washington che occupano spazi politico-culturali non affini. Uno dei pochi rimasti, in virtù della partecipazione piena dei think tank al processo di radicalizzazione delle élites politiche americane: Ornstein e Mann sono un esempio della vecchia guardia di esperti della “Washington Belt”, quell’ambiente culturale che ha assistito con preoccupazione all’emergere del “populismo dall’alto” che ha oggi contagiato l’intero Congresso.

La loro tesi, a proposito di Donald Trump, è infatti la seguente: l’establishment repubblicano è oggi vittima di ciò che ha seminato negli ultimi due decenni. Nel 2012 hanno dato alle stampe un volume dal titolo “It’s Even Worse Than It Looks: How the American Constitutional System Collided With the New Politics of Extremism”, dal quale sono partiti per analizzare l’evoluzione del sistema politico – e in particolare della fisionomia del Congresso e della trasformazione dell’offerta politica americana – negli ultimi anni di Obama.

Proprio Ornstein è stato uno dei primi esperti a prendere sul serio il fenomeno Trump, quasi un anno fa. In un articolo per la rivista The Atlantic apparso nell’agosto 2015, Ornstein metteva insieme due elementi: una crescente simpatia popolare per gli outsider della politica, così forte (a detta dei sondaggi) da far vacillare l’idea che alle primarie prevalgano – alla fine – i più moderati ed eleggibili, e la cultura della rabbia e del conflitto permanente generata dallo stesso establishment conservatore, impegnato a mobilitare i più intransigenti nemici dell’amministrazione Obama. I Repubblicani hanno seminato una tempesta che ha finito per colpire in modo indistinto lo stesso establishment che l’aveva generata: Ornstein la definisce come “ferita auto-inflitta”.

Lo stesso linguaggio che negli anni ’90 utilizzava Newt Gingrich – il Congressman repubblicano antagonista di Bill Clinton – contro il “liberal establishment” di Washington, sarebbe divenuto incontrollabile, in una fase storica di faticosa ripresa dalla crisi economica e finanziaria. Nazionalismo, isolazionismo e protezionismo sarebbero quindi gli ingredienti lievitati nel forno dell’antipolitica dall’alto, pronti – in un’epoca di forte malumore sociale – a essere sfruttati appieno da leader quali Donald Trump, pienamente credibili in quanto veri outsider del sistema di Washington.

Cosa ha a che fare questo con i think tank, con gli esperti, con le diplomazie parallele dei centri di ricerca di Washington? Molto. In pochi anni, il tasso di teorie complottiste a proposito del ruolo dei pensatoi” nel sistema politico americano ha moltiplicato, complice la rete, la rivolta contro Washington – servendosi, inconsapevolmente, gli slogan contro il Big Government cucinati dentro gli stessi think tank della capitale federale. Ciò è accaduto anche grazie a inchieste giornalistiche che hanno minato l’aura di imparzialità di alcuni centri di ricerca: si guardi, in particolare, a quella del New York Times dal titolo “Foreign Powers Buy Influence at Think Tanks”, apparsa nel settembre del 2014 e ancora oggi dibattuta.

I think tank sono stati trascinati nel vortice della crisi di credibilità del sistema politico americano e delle sue élite. Ciononostante, nel mondo dei think tank c’è chi tesse la sua tela anche in presenza di Donald Trump: il Center for the National Interest – che la stampa definisce “nixoniano” – il 27 aprile si è trasformato nel palcoscenico del suo primo discorso sulla politica estera; nell’autunno del 2015 Trump citava espressamente tesi e dati del Center For Security Policy – un think tank guidato dall’eccentrico Frank Gaffney, un personaggio capace di accusare il super-conservatore Grover Norquist di compromissione con i Fratelli Musulmani – quale fonte a sostegno della proposta della chiusura delle frontiere per i cittadini stranieri di religione musulmana.

Nel frattempo, uno dei consiglieri di Trump – Paul Manafort – ha svolto una delle più classiche iniziative di un ‘presidenziabile’ conservatore: svolgere il tour dei think tank (con un’attenzione particolare per la Heritage Foundation) a caccia dei nuovi componenti dello staff che dovranno stendere il programma nazionale di Trump in vista della competizione di questo autunno.

Non da ultimo, va segnalato che sempre la Heritage Foundation sta aiutando Donald Trump a selezionare un nucleo di “candidabili” al ruolo di giudice della Corte Suprema, un tema oggi decisivo – discusso anche nell’incontro con Paul Ryan. La Heritage, in sostanza, è un attore attivo della diplomazia parallela che si sta edificando fra Trump e alcuni insider del Partito Repubblicano.

Nominato il nuovo aspirante “sovrano”, che siano proprio i think tank – secondo un’antica ritualità di Washington – a svolgere la funzione di ambasciatore verso l’establishment della Capitale?